La nuova opera di Daniel Clowes (autore di ottimi lavori come David Boring, Ghost world, Come un guanto di velluto forgiato nel ferro e Ice Haven, solo per citare quelli più celebri) è il primo volume che non nasce dalla raccolta di materiale precedentemente pubblicato sulla rivista Eightball. Pubblicato in Italia per la casa editrice Coconino Press, Wilson si presenta completamente incentrato sulla vita e le azioni dell’omonimo protagonista: ciò è vero ad un punto tale che Wilson finisce non solo col dare il titolo al volume, ma anche a farsi vera e propria opera-in-sé, assoluto mattatore della scena e punto focale delle vicende.
Il personaggio di Wilson è (ma al contempo non è) un alter ego di Daniel Clowes. Wilson va oltre questo ruolo e descriverlo ai lettori risulta essere forse operazione fin troppo facile: misantropo, egocentrico ai massimi livelli, arrogante, sgradevole, sprezzante degli altrui sentimenti, logorroico.
Un Wilson che già dalla prima vignetta si presenta in tutto il suo abbagliante e disarmante cinismo: “Mi piace la gente!”, un’autodichiarazione che è autentica contradictio in terminis, subito smentita non nell’arco del volume, ma nel breve volgere della tavola stessa! Eppure è proprio l’insieme di tutti questi difetti che non può non renderlo in parte simpatico al lettore, suscitando in questi un sentimento misto di ammirazione per l’ostinata forza con cui Wilson tenta di percorrere la sua personalissima strada di comunicazione verso il mondo e un senso di compassione per l’insensibilità con cui egli pare relazionarsi al prossimo senza riuscire a trovare alcun esito soddisfacente. Eppure la pervicacia con cui Wilson insiste in questo percorso di auto-dannazione lo rende allo stesso tempo anche insopportabile, mentre le sue caustiche battute e il suo sarcasmo violento non possono che guadagnargli il rifiuto, innanzitutto morale, dei personaggi secondari del testo e, ovviamente, del lettore.
Pur non nascendo dalla rivista Eightball, Wilson risente comunque dello stile di Clowes, già sperimentato ad esempio in Ice Haven, con la scelta di uno schema narrativo tipico della serialità, con microstorie legate fra loro da alcune vicende-cardine del volume (Wilson alle prese con le riflessioni sulla propria esistenza, Wilson impegnato a districarsi nei meandri della propria disastrata situazione familiare, Wilson che re-incontra la propria ex, Wilson alla scoperta di sua figlia, Wilson imprigionato e infine invecchiato e più disilluso che mai).
Certo Clowes fa davvero molto poco per farci amare Wilson: la vicenda si estende su una serie di una settantina di tavole autoconclusive, con una scansione della pagina su tre livelli, ciascuna composta dai sei agli otto riquadri, con un modulo narrativo spesso costante: costruzione della situazione, sospensione in terz’ultima vignetta, pausa e poi scioglimento in ultima con uno stravolgimento di senso, attraverso battute farcite di umorismo nero, di cinismo, di puro dolore, di sarcasmo o di ironia. Anche lo stile adottato è variabile e oscilla dal cartoonesco al realistico, dall’introspettivo all’espressionista, con una scelta di colori molto mutevole, che abbraccia tanto il monocromatismo quanto una colorazione sfumata e raffinata, fino ad arrivare a vere e proprie esplosioni cromatiche. Il tratto è anch’esso variabile e questo stile “fratturato”, polivalente, ben si adatta alla molteplicità delle situazioni esistenziali vissute (o meglio, attraversate) da Wilson e alla varietà delle sfaccettature del carattere del protagonista che pure si celano dietro la sua apparente facciata monolitica.
Il volume si fa strada nel lettore in parte incarnando alcune delle tematiche che più sono care all’autore e che qui si ripresentano in tutto il loro impatto tipicamente clowesiano: l’incomunicabilità, la dissoluzione dei legami familiari, l’isolamento, la disillusione. Solo per fare un esempio, basti pensare al modo con cui Wilson interagisce: spesso con gli altri personaggi, ma in fondo, a ben vedere, sempre da solo, sempre in assenza di un vero confronto con l’Altro, quasi sempre attraverso monologhi. Wilson appare incapace di instaurare un legame autentico con le persone che lo circondano e nonostante i suoi sforzi, il protagonista si spazientisce presto e il dialogo si deteriora rapidissimamente per volgere in accuse gratuite, in sarcasmo pungente e arido, in forme di insulto (spesso divertentissime e molto poco celate).
Ma questo turbinio di parole e di tentativi di comunicazione c’è soprattutto un’immensa, dolorosa solitudine, una spietata sincerità (prima di tutto verso se stesso, oltre che verso gli altri) e in mezzo a tutto questo tante finzioni e tante pose da spocchioso e arrogante, nonché impotente, attore consumato.
Eppure, nonostante la presenza delle tematiche sopra ricordate, la distanza da opere come David Boring, Ghost world o Come un guanto di velluto forgiato nel ferro per certi versi è molto forte: manca qui una delle cifre stilistiche tipiche di Clowes, ossia quel senso dell’onirico e del macabro, quell’atmosfera malsana e allucinata tipica di certe sue produzioni. In questo Wilson è certamente molto più accostabile ad un’opera come Ice Havenper il suo senso di realismo e per lo stile narrativo adottato. Infatti il ritmo di “una pagina-una storia” viene riproposto senza che questo impedisca a Clowes un racconto di ampio respiro: gli anni passano fra le pagine e Wilson invecchia, in parte, anche se impercettibilmente, evolve, si fa personaggio più meditativo, più dolente e patetico, ma senza mai perdere quella ruvidezza e quell’odiosa attitudine verso il mondo che lo ha caratterizzato fin dalle prime pagine. In fondo non è certo priva di fondamento l’ipotesi che Wilson possa in qualche modo essere un po’ il lato oscuro di Clowes, la sua anima nera, il fantasma con cui fare i conti e in cui riconoscersi per auto-esorcizzarsi.
Daniel Clowes, Wilson, Coconino Press, pagg.80, euro 17,50
Simone Di Conza
Scrivi