Sea-Watch 3. Continua il braccio di ferro tra la capitana e il governo italiano

Sea-Watch 3. Carola Rackete, comandante della nave ong, ha forzato il blocco navale armato della Gdf italiana, per salvare 42 naufraghi. Lo ha fatto violando la recente norma italiana del “decreto sicurezza bis”. Quello che assegna al ministero dell’Interno il potere di “limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica” . Un decreto il Parlamento è tenuto a convertire in legge entro il 14 agosto, altrimenti decade.

La Rackete lo ha fatto ben sapendo che in Italia avrebbe rischiato sanzioni penali e che la sua nave poteva essere sequestrata. Ma siamo poi tanto sicuri che il gesto di Carola Rackete sia illegale?

Ad ogni norma, compreso il decreto sicurezza, quando contiene passaggi discrezionali, va data una lettura costituzionale. L’art. 10 della Costituzione italiana recita: “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

Anticipiamo, prima di approfondire la norma internazionale che, sotto il profilo della legalità internazionale, l’azione dell’attivista tedesca, non è stata una scelta ma un obbligo. In mare, infatti, la priorità va data al “soccorso della vita umana”. Esaminiamo allora i trattati e le convenzioni applicabili.

Rackete aveva richiesto di attraccare con la Sea-Watch 3 nel “porto sicuro” di Lampedusa

La comandante Rackete aveva chiesto di attraccare nel più vicino “porto sicuro”, quello di Lampedusa. La convenzione internazionale applicabile in materia è quella di Amburgo del 1979. Gli è stato risposto di riportarli in Libia, dimenticando la guerra civile in atto nella nostra ex colonia. In tale situazione, nessun porto libico può essere ritenuto sicuro dal punto di vista del diritto “di richiedere asilo e di ottenere un’accoglienza dignitosa”.

Ora, è vero che il diritto internazionale generale riconosce ad ogni Stato sovrano il diritto di decidere chi ed in quali condizioni può entrare nel proprio territorio. Ma la piena discrezionalità dello Stato trova limiti per le situazione specifiche dei “rifugiati” e dei “richiedenti asilo”. Proprio come prescrive la lettura costituzionale delle norme interne italiane.

Quindi, lo Stato del porto (nel caso, l’Italia) deve prima identificare i naufraghi e verificare la sussistenza dei loro diritti di asilo e poi prendere provvedimenti. A dire il vero, sembra che l’identificazione sia già avvenuta durante la notte, sulla Sea-Watch 3, da parte della GdF. Così come sembra che già siano stati effettuati i primi soccorsi. Anche se il ministro Salvini continua a negarlo e a dare della “sbruffoncella” a Carola Rackete.

I 42 migranti salvati dalla Sea-Watch 3 sono ormai già tecnicamente entrati in Italia

La procedura secondo la quale i migranti andrebbero fatti prima fatti sbarcare (e, quindi, soccorsi), poi identificati ed eventualmente espulsi è stata addirittura confermata dalla leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, in una intervista.

L’ingresso e l’eventuale espulsione, entrambi sottoposti al giudizio e al vaglio dello Stato del porto, sono però due momenti distinti della circolazione dello straniero. Lo Stato può vietare l’ingresso allo straniero o porre condizioni al suo soggiorno ma deve metterlo a conoscenza delle motivazioni del suo agire. Essendo ormai in acque italiane, l’ingresso dei 42 migranti salvati dalla Sea-Watch 3 è già formalmente avvenuto.

Giunti a questo punto, la norma italiana applicabile è il decreto legislativo 286/98 (Legge Turco-Napolitano), modificato con Legge 189/2002 (cd. Bossi-Fini). In base ad essa può essere riconosciuto al cittadino straniero che ne faccia richiesta lo status di rifugiato o quello di protezione sussidiaria, in relazione alla sua particolare condizione.

Gli status in questione sono riconosciuti all’esito dell’istruttoria effettuata dalle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale. Di certo, la negazione dell’accesso all’istruttoria è un atto incostituzionale. Se lo ricordi il Parlamento, in sede di conversione in legge del citato decreto sicurezza bis.

Ingresso ed espulsione sono due fasi distinte entrambe soggette alla garanzia dei diritti umani

Per quanto riguarda l’eventuale espulsione, la norma di legge non consente l’espulsione sin tanto che la domanda di asilo politico non sia valutata, accolta o respinta. Fermo restando che anche agli irregolari sono garantiti i fondamentali diritti costituzionali.

Per concludere, quattro numeri sulla situazione delle espulsioni in Italia. Il ministro degli interni Matteo Salvini sa bene che in un anno ha saputo rimpatriare solo 7000 dei 530.000 illegali che aveva promesso in campagna elettorale. Tale elevato numero non comprende soltanto gli ingressi clandestini.

Secondo le stime dello stesso ministero dell’Interno, infatti, il 64% di essi sono divenuti irregolari in seguito alla scadenza del visto turistico o del permesso di soggiorno precedentemente accordato. Non hanno più diritto a restare in Italia ma solo perché non hanno trovato o hanno perso il lavoro.

La sbandierata esigenza di procedere alle espulsioni, accomuna Salvini al suo predecessore Minniti. Entrambi, hanno avuto lo stesso (in)succcesso. Forse l’attuale ministro anche qualcosina di meno.

Nei primi sei mesi (giugno-dicembre 2018), infatti, Salvini ha rimpatriato 3.851 irregolari. Nello stesso periodo di tempo, Minniti ne aveva effettuati 3.968. In un anno, nel 2017, la Germania ne aveva rimpatriati 47.240.

Fonte foto: TgCom24

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