roma, capoccetta

santa-maria-in-trastevere oldsono romana, de fatto, de core, e quarcosa incominciava a mancamme. poi, è arrivata una frase, e una voce m’ha timbrata.

erano stretti, rettangolari. arancio, e credo anche bianchi e verdi. non ricordo la funzione dei colori di quei biglietti. molti li ho conservati, ma solo quelli che ho usato per andare a scuola di c., direzione eur, e sono in un cassetto, a casa di mia madre. atacromasparita

era il 55. direzione centro. capolinea a due passi dalla casa di dante. il nome della piazza mi sfugge, e forse non era nemmeno il 55, ma so che erano arancioni. un dito di gomma al medio, per strapparli. io avevo la tessera, che conservo quasi tutte, di quei quattro anni di ragioneria al quintino sella, a piazza gioacchino belli. ma l’autobus fermava prima. sotto ad un grande platano.

lì aspettavo il resto della comitiva, e poi si decideva: sega o scuola. all’epoca c’era, e si era tutti compatti, ora vige il branco, e non è la stessa cosa. i libri sotto l’ascella, profumata di sudore, fermati dalla cinta elasticizzata. la mia era gialla, con una riga nera al centro. chissà, se esistono ancora. poi si attraversava. regola principale: sempre col rosso. e si rideva, così, per delle sciocchezze, ma erano salutari, genuine, come la focaccia che ci compravamo al forno in quel vicoletto prima di s.m. in trastevere. poi, seduti al bar, di fronte alla madonna, facevamo colazione, e ormai la sega era decisa.

roma, quella vera, me manca. la gente era bona. me mancheno le grida, quelle che usciveno dai balconi, insieme al profumo de cucinato. la sora quinta faceva il battuto, pe’ fà er sugo, e tutti li santi giorni alla stessa ora il soffitto tremava.

ora sento che la terra, mi trema, sotto i piedi. tutto è liscio, anche i sampietrini, ché prima, quando li percorrevo con gli zoccoli, sentivo i montarozzi. ora più niente, il tempo del progresso li ha levigati, e sono lucidi, come se qualcuno ci avesse passato la cera, ma se mi ci specchio non vedo niente, nemmeno gli sputi rimangono appiccicati.

gbellimi sta sfuggendo tutto. sono tornata lì, un po’ di tempo fa. non c’è nessun capolinea. nessun ragazzo che attraversa. niente libri, niente ascelle. niente scuola, e fuori una targa recita spietatamente regione e qualcosa. sbircio nei ricordi. vedo un cancellino colmo di gesso uscire dalla finestra del secondo piano. tutti affacciati a vederne la fine: addosso ad un signore che passava. ennesima nota sul diario, ed ennesima firma falsa per non prendere botte. c’era un benzinaio davanti all’istituto. rammento la sua voce rauca che grida: ve possino!

sento l’elastico della cinta tirare una schicchera: si è spezzata sulla gola. deglutisco amaro. la casa di dante è la sola che sopravvive, ma forse è divenuto un albergo ed io non lo so. tutto può essere.

l’odore di piscio, anche quello mi manca. era all’angolo della chiesa su strada, non ricordo il nome di quei santi, ma so che lì ci vivevano due barboni. per anni ci hanno pisciato, ché prima i poveracci erano sempre quelli. ora solo bottiglie di birra, ovunque, e ovunque si beve l’arroganza, per dimenticare,  e siamo barboni, tutti, anche quelli coi sordi.

roma mia me manca, e de brutto.

tocco quelle mura, mentre passo, da una vita all’altra.

e sfioro con le mani le tue parole.

c’è chi mi chiama testona, forse ha ragione, ma un giorno ho affondato le dita in un “franco e venti”, detto così, all’improvviso, ed è come se riavessi avuto con me una parte di roma. 

e da quel momento, me sento un po’ roma capoccetta, ché quando tirano fuori certi “detti”,  faccio il bagno nel latte.

e allora sono grata, a quella voce, ché non sono più, un semplice biglietto, nel cassetto.

di simonetta bumbi

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