Migrazioni forzate e pulizie etniche

Per pulizia etnica s’intende la rimozione pianificata e deliberata o il trasferimento forzoso di una popolazione indesiderata da un determinato territorio, definita sulla base del criterio etnico. L’obiettivo è omogeneizzare con la forza la composizione di un territorio abitato da popolazioni diverse per lingua, religione o cultura. Se all’intento depurativo si affianca l’obiettivo di completa distruzione, vi è allora motivo di parlare di genocidio. Con tale termine gli studiosi indicano casi estremi come i tentativi di sterminio posti in atto da parte del governo ottomano a danno degli armeni, del governo nazista a danno degli ebrei europei o del governo ruandese hutu a discapito della minoranza tutsi.

“Scambi” di popolazioni

Le prime migrazioni forzate nella storia dell’Europa contemporanea risalgono al crollo dell’impero ottomano e alla conseguente cacciata degli antichi padroni, identificati in base alla loro affiliazione religiosa. Non sorprende, dunque, che una delle prime proposte di “scambio di popolazioni” risalga al 1878, anno in cui l’impero ottomano perse un terzo del territorio e una quinto della popolazione in seguito alla disastrosa sconfitta militare.

Il 1913 vede, per la prima volta nella compagine dei rapporti internazionali, la stipulazione di un accordo per il reciproco scambio di popolazioni, come protocollo annesso al trattato di pace tra Bulgaria e impero ottomano. Si tratta, almeno sulla carta, di un aggiustamento di natura volontaria. Si parlerà invece di migrazioni forzate durante la prima guerra mondiale; si pensi, a tal proposito, alla legge di deportazione varata a danno del popolo armeno nell’impero ottomano nel 1915.

Pratiche simili, sia pure su scala inferiore, appartenevano già all’epoca coloniale. É questo il caso dell’internamento dei civili boeri da parte dei britannici nel 1900 – la cui realtà porterà inoltre alla creazione di uno dei più tragici simboli del XX secolo, vale a dire il campo di concentramento – o dell’espulsione degli indigeni africani Herero verso la regione desertica Kalahari, attuata nel 1904 dalle autorità coloniali tedesche e che sarà più tardi ricordata da molti come il primo genocidio del XX secolo. Altre deportazioni avvennero nei territori di sfruttamento economico coloniale. Probabilmente la tratta transatlantica degli schiavi africani resta una delle più note e tristi realtà della storia, nonché esempio di deportazione a scopo economico e fondamentale strumento dello sviluppo delle colonie europee.

Deportazioni medievali

Gli spostamenti coatti di popolazioni sono un’invenzione tutt’altro che novecentesca; simili avvenimenti possono, infatti, essere ritrovati già in epoca antica. Fu caratteristico, ad esempio, della politica imperiale assira, la quale ne fece uno dei principali strumenti di dominio sugli altri popoli in ogni dove del proprio impero. La deportazione poteva avere un fine punitivo, prevedendo l’allontanamento dei ribelli, oppure preventivo, scongiurando la possibilità di nuove ribellioni da parte di gruppi della popolazione sconfitta o sottomessa.  

Il precedente più prossimo alle pulizie etniche contemporanee è rappresentato dalle numerose espulsioni forzate verificatesi in Europa in epoca medievale, su base religiosa. Così gli ebrei furono espulsi dall’Inghilterra nel 1290, dalla Francia nel 1306 e nel 1394, dalla Spagna nel 1492, dal Portogallo nel 1496. Nel 1502 furono espulsi dalla Spagna i musulmani che rifiutavano di convertirsi al cattolicesimo; tra il 1609 e il 1614 anche quelli che si erano nel frattempo convertiti.

Ancora, le guerre di religione tra cattolici e protestanti provocarono esodi di massa tra il 1577 e il 1630, durante i quali più di 100.000 protestanti furono espulsi dai possedimenti spagnoli nei Paesi Bassi. Altri esodi coinvolsero i serbi, che abbandonarono le aree sotto il dominio ottomano a partire dal XVII secolo per rifugiarsi nelle terre ungheresi; gli irlandesi di religione cattolica, espulsi a ondate verso la Francia e la Spagna a partire dalla fine del XVI secolo; molti protestanti, come i puritani, abbandonarono la Gran Bretagna per rifugiarsi in America, dove la loro libertà religiosa era garantita.

Le deportazioni del regime nazista

Durante la seconda guerra mondiale la Germania nazista fece ampio ricorso agli spostamenti forzati di popolazione, compiendo tra l’altro veri e propri esperimenti di ingegneria razziale. La prima riguardò essenzialmente lo sforzo di riportare in Germania i “tedeschi etnici” dell’Europa centrale e orientale – i Volksdeutsche che vivevano al di fuori del Reich; la seconda si concretizzò nella soluzione finale della questione ebraica. Uno dei cardini del programma politico dell’ideologia nazista fu l’unione di tutti i tedeschi in una “Grande Germania”; tale progetto si scontrava tuttavia con una realtà in cui 9 milioni e più di tedeschi vivevano in stati stranieri con lo status di “minoranze nazionali”. A partire dal 1939, pertanto, la Germania si impegnò in un progetto di rimpatrio dei connazionali residenti all’estero, concludendo una serie di accordi con i paesi ospitanti le minoranze tedesche.

Una volta evacuati, i tedeschi etnici venivano convogliati in “campi di transito” e sottoposti a una lunga serie di procedure miranti ad accertare la loro “idoneità razziale” ed affidabilità politica. Sulla base di questi elementi, gli individui venivano successivamente divisi in gruppi. Alcuni erano inviati verso est, nei territori polacchi annessi al Reich, destinati a processi di germanizzazione; altri venivano insediati all’interno dei confini tedeschi, rimanendo tuttavia casi dubbi e sottoposti a monitoraggio. L’espulsione di ebrei e polacchi dai territori tedeschi offriva a sua volta spazio utile ai tedeschi reinseriti.

La Shoah, oltre la deportazione

La Shoah rappresenta un fenomeno drammaticamente unico nel suo genere, sviluppatosi e maturato all’interno di una politica di eugenetica razzista. A tal motivo è fondamentale studiare “la soluzione finale” nazista come frutto di una serie di volontà dittatoriali e odio razziale ma allo stesso tempo come realtà distinta dalla strategia di deportazione forzata. L’intento depurativo è stato spinto alle estreme conseguenze, giungendo a pianificare l’uccisione di ogni singolo componente del gruppo perseguitato, fino all’ultimo uomo, donna e bambino esistenti, compresi individui e gruppi al di fuori del territorio tedesco.

Ciò non accadde, ad esempio, nel genocidio armeno, per opera dell’impero ottomano, né in quello ucraino, per mano dell’unione sovietica; lo sterminio degli ebrei in URSS si svolse con esecuzioni di massa e non con le tecniche di uccisione industrializzata come avvenne nei campi di sterminio. Concludendo, nonostante la sua efferatezza, neppure il genocidio ruandese – il cui numero di vittime raggiunse circa il milione – ebbe un disegno tanto globale quanto quello nazista. La macchina di pulizia etnica tedesca fu una vera e propria opera industriale messa in funzione solo ed esclusivamente per l’universale eradicazione del popolo ebraico.

Foto di Mamadou Traore da Pixabay

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