
Nella gastronomia contemporanea si moltiplicano le proposte di «cucina popolare», di «antiche ricette» e non mancano esperimenti di «archeocucina».
Quanti piatti del lontano e lontanissimo passato potremmo realmente far entrare nella nostra cucina quotidiana?
Quanto possiamo risalire indietro nel tempo per non provare una forma di rigetto, se non addirittura di disgusto?
Pochissimi in confronto alla ricchezza del passato e, salvo pochissime eccezioni, non più di due secoli.
Il «gusto borghese»
Tutta colpa del «gusto borghese»: un fenomeno culturale, prima ancora che gastronomico, che ha preso coscienza in Francia alla metà del 1700 con «La cuisinière bourgeoise» di Menon, si è affermato con la «Physiologie du Goût» (La Fisiologia del gusto) di Anthelme Brillat-Savarin del 1825 – che ha segnato anche la nascita di una nuova figura professionale: il gastronomo in grado d’influenzare il gusto della propria epoca – e si è imposto nei «Ristoranti», veri e propri templi del gusto borghese.
Dalla trattatistica culinaria ai libri di cucina
Tra Archestrato da Gela, del IV secolo a.C. a Pellegrino Artusi vi è un numero sorprendentemente ridotto di fonti documentali di cucina e ancor meno sono quelle realmente originali. Se di alcuni grandi cuochi italiani (da Apicio a Vincenzo Corrado, passando per Maestro Martino, Scappi, Messisbugo, Plàtina e Cavalcanti) è giunta sino a noi l’opera attraverso la trattatistica, dei più si è persa ogni traccia. La maggior parte dei cuochi del passato non aveva gli strumenti per trasporre in testi scritti il loro sapere e spesso neppure l’esigenza: la trasmissione orale garantiva la segretezza e giustificava il lungo apprendistato.
Con l’avvento della borghesia lo scenario mutò radicalmente e si passò dalla trattatistica alla manualistica con il fiorire di tutta una serie di pubblicazioni la maggior parte delle quali verrà offuscata in Italia dall’opera dell’Artusi: il più diffuso dei testi di cucina ultracentenari. Nel modello sociale borghese, che in Italia divenne dominante solo dopo l’Unità, la cucina, che non era quella voluttuaria della grande nobiltà e neppure quella povera delle classi popolari, era diventata lo snodo in cui s’incrociavano immagine pubblica e vita quotidiana, parsimonia, economia e buon gusto. Ricevere era necessario per mantenere ed ampliare le relazioni sociali, ma eccedere nella ricercatezza e nella spesa per il cibo era indice di pretenziosità e di prodigalità.
Destinatari dei libri di cucina non furono più solo i professionisti della cucina o il personale di servizio, ma le signorine prossime alle nozze, in cui l’«economia domestica» divenne parte del percorso formativo, e le signore che delle loro cuoche, spesso d’estrazione contadina, non si fidavano più.
La nuova classe sociale azzerò il passato culinario, ritenuto artefatto e ampolloso, per affidarsi ai nuovi maestri del gusto, in origine transalpini e, dopo Pellegrino Artusi, italiani, che di fatto decisero prima cosa dovesse piacere per essere moderni e alla moda, poi cosa dovesse piacere tout-court.
La cucina del passato divenne improvvisamente eccessiva: troppo grassa, troppo speziata, troppo dolce, troppo acida mentre i progressi delle scienze agronomiche e le norme sanitarie modificavano, in modo irreversibile, le materie prime.
La refrigerazione, le nuove tecniche di cottura alla francese, le conserve e gl’estratti (i dadi) ammorbidirono il gusto, attenuarono gli odori ed ai primi del ‘900 Kikunae Ikeda
dell’Università imperiale di Tokyo enucleò un nuovo gusto: l’umami.
La mediazione borghese della cucina popolare
Anche se non erano mancate contaminazioni nei secoli precedenti la cucina popolare fece irruzione nelle case borghesi italiane, superando i confini locali, nella prima metà del ‘900 mediata dalla giornalista e gastronoma Ada Boni e da Petronilla (pseudonimo di Amalia Moretti Foggia) una delle primissime pediatre italiane che, con manuali e rubriche di cucina, dispensarono ricette e consigli alle donne borghesi per seguire i quali anche le classi popolari rinunciarono ai loro piatti di famiglia per convertirsi ad un gusto più raffinato e ad una cucina più salutare. Quando, dalla metà degli anni ’50, si giunse alla trascrizione delle ricette trasmesse oralmente in linea femminile il gusto borghese si era già consolidato e le modificò, negl’ingredienti e ancor più negli equilibri, non foss’altro per la necessità di sostituire ingredienti ormai scomparsi o desueti e definire in peso e volume le quantità in un universo fatto di misure approssimative.
Supereremo mai il «gusto borghese»?
I fenomeni migratori stanno portando una nuova offerta culinaria che, sia pure adattata, ha forti elementi di discontinuità rispetto al gusto borghese che, dopo oltre due secoli, inizia a vacillare al cospetto di piatti «etnici» apprezzati soprattutto dai giovani e dai giovani adulti. I più disposti verso culture culinarie come quelle sudamericana, caraibica, africana, hawaiana e giapponese, mentre la cucina cinese e ancor più quella mediorientale sono ormai perfettamente inserite nel tessuto sociale.
Il rischio di questo melting pot culinario è duplice: da un lato rischia d’innescare una sorta di nazionalismo culinario, di cui già si intravedono le prime avvisaglie, dall’altro di creare un gusto globalizzato senza radici e senza identità.
Aggiungere senza cancellare, contaminare senza svilire, sarà la sfida gastronomica delle prossime generazioni.
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