La vigna di Renzo e il caos del guazzabuglio

Una delle parole più interessanti della grammatica latina è il verbo cŏlo. Significa coltivare, avere cura, adornare; ma anche abitare, frequentare, esercitare e perfino venerare. Azioni diverse che hanno in comune un atteggiamento di cura costante volto alla crescita e al miglioramento. Il campo coltivato dà frutti che poi si possono cogliere, il culto religioso serve a rendere più pura l’anima dell’uomo, la cultura arricchita quotidianamente rende più brillante l’intelletto umano. Coltivare, cogliere, culto, cultura… Tutte parole che derivano dal verbo cŏlo e ne conservano il significato più profondo. La cura: l’impegno connesso a una vera e propria vocazione dello spirito senza cui niente cresce e niente sopravvive. 

L’effetto dell’assenza

Uno degli esempi letterari più belli di cura connessa al binomio coltura-cultura è rappresentato dal capitolo XXXIII di I promessi sposi. Qui Alessandro Manzoni racconta l’episodio in cui Renzo, dopo tante tribolazioni, si ritrova a contemplare la vigna che ha abbandonato quando ha lasciato il suo paese. «Passò davanti alla sua vigna: e già dal fuori poté subito argomentare in che stato fosse. Una vetticciola, una fronda d’albero di quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza».

Affacciandosi al cancello sgangherato, il promesso sposo di Lucia trova i resti della sua «antica coltura» sparsi, soffocati, quasi del tutto nascosti dalla vegetazione spontanea cresciuta in sua assenza. Senza «l’aiuto della mano dell’uomo» è sorta una vegetazione spaventosa come i mostri generati dal sonno della ragione della famosa incisione di Goya. Per Manzoni non c’è bellezza nella vita che nasce dall’incuria. È solo un  immenso groviglio di steli che nella sua indecifrabilità appare impenetrabile e invincibile. Questo «guazzabuglio» rappresenta il male che prolifera laddove non c’è cura né responsabilità. E cosa bisogna fare per combatterlo? Innanzi tutto usare l’intelletto: analizzare il guazzabuglio e enumerare tutti gli elementi che lo compongono. E così ridimensionarlo fino a renderlo un nemico affrontabile. 

L’importanza dei nomi

È per questo che l’autore si rifiuta di usare il termine erbacce, preferendo elencare tutte le piante che invadono la vigna con la perizia tecnica di un botanico. «Era una marmaglia di ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene selvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetostelle, di panicastrelle e d’altrettali piante; […] Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca, […] il tasso barbasso, […] una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, […] una zucca salvatica, co’ suoi chicchi vermigli».

Manzoni si dimostra così molto lontano dalla fascinazione per la natura libera e selvaggia tipica del romanticismo nordeuropeo. Egli aspira a una natura completamente addomesticata e priva di imprevisti, simbolo del suo bisogno costante di ricercare le motivazioni che soggiacciono a ciò che generalmente viene chiamato male. Per lui la bellezza sta nella chiarezza, nella cultura che guida la coltura e ne trae frutti incorrotti. Ma soprattutto sta nelle potenzialità prodigiose che l’uomo ha dentro di sé, nella sua intelligenza e creatività, nell’amore che potrebbe dare con i suoi gesti quotidiani per rendere il male del mondo un po’ più sopportabile.

Foto di Mystic Art Design da Pixabay 

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