La follia, la poesia, la salvezza

follia salvezza

«Ieri sera, anche stanotte, ripensavo alla tua poesia. E ripensavo ai poeti. Io credo che gli artisti abbiano in comune coi matti una cosa: nessuno può dirgli cosa guardare e come guardarlo, chiamala libertà se vuoi. Allo stesso modo niente e nessuno può lenire il loro dolore, io ho la mia teoria su questo». A parlare è Mario, ex maestro elementare, paziente di ospedali psichiatrici fin da quando erano ancora attivi i manicomi. Parla a Daniele, ventenne, ricoverato per sottoporsi al TSO dopo una serata di eccessi e di follia in cui ha rischiato di uccidere suo padre. Il senso del discorso è chiaro: sia il poeta che il folle hanno il loro modo speciale di guardare le cose. La loro unicità è la loro libertà, ma il dolore è la loro schiavitù.

La follia e il dolore di esistere

Si tratta di uno dei tanti dialoghi significativi di Tutto chiede salvezza (2020) di Daniele Mencarelli. Un romanzo che apparentemente parla di salute mentale, ma che in realtà tratta di quanto la vita colpisca duramente, di quanto a volte sia difficile cogliere la differenza tra l’effettiva irrazionalità del folle e la disperazione di chi ha compreso che l’esistenza è troppo dolorosa da sopportare. E non è uno psicologo né un infermiere a dar voce a questa teoria, ma un matto — Mario, appunto — che un giorno ha perso la testa al punto di tentare di uccidere le persone che aveva più care. 

Dice al termine della terza parte del romanzo: «Non sto dicendo che non esista la malattia mentale, ci mancherebbe, ho conosciuto squilibrati da mettere i brividi, gente che godeva del dolore altrui. Ma oggi non si cura più solamente la malattia mentale, oggi è l’enormità della vita a dare fastidio, il miracolo dell’unicità dell’individuo, mentre la scienza vorrebbe contenere, catalogare. Ormai tutto è malattia, ma vi siete chiesti perché?». La risposta arriva immediata. Sta nel malessere che prova colui che riesce a cogliere i limiti della propria esistenza e a comprendere che niente potrà colmare davvero «l’insoddisfazione che lo scava da dentro». 

La poesia e la salvezza

È la scoperta dell’insoddisfazione perenne del Leopardi che si accorge che l’uomo per essere felice ha bisogno di un piacere illimitato e impossibile. Di Pirandello che scopre che ognuno è prigioniero di se stesso e che invece di vivere muore progressivamente nella trappola della propria forma. Di Montale che contempla con triste meraviglia l’invalicabile «muraglia/ che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia».  È Daniele che si sente un «puntino di vita senza approdo» che vuole esistere per sempre e che per questo soffre il peso della precarietà della vita umana. L’unica speranza è ricorrere all’immaginazione per “trasportarsi via”. Tutto ciò che vuole è salvezza: «Ecco la mia ossessione, il mio desiderio patologico. Salvezza. Dalla morte. Dal dolore. Salvezza per i miei amori. Salvezza per il mondo.» 

Una salvezza che assume la forma della madre che lo viene a riprendere per portarlo a casa. Ieri per trarlo dalla noia della scuola, oggi dall’inferno dell’ospedale. «Sei sempre tu che vieni a riprendermi» dice il primo verso della poesia che scrive durante il ricovero. In una galleria di medici distratti o svogliati e di infermieri con poco tatto o troppo presi dai propri problemi, la poesia — insieme all’autenticità dei legami umani con i compagni di stanza — è l’unica vera terapia per Daniele. Un viaggio doloroso ed estenuante verso «il vertice interno delle cose». Verso un’improvvisa lucidità che consente di raccogliere, in mezzo a tanta assurdità, pezzi di quella bellezza originaria e assoluta il cui desiderio instilla una nostalgia inestinguibile nel cuore dei poeti di ogni tempo.

Foto di Vicki Nunn da Pixabay

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