La fine del quantitative easing e i problemi dell’Europa

Il dibattito italiano sulle questioni economiche langue. Il provincialismo che ci contraddistingue non può che fissarsi su temi italocentrici, come se l’Italia, da sola, con uno strappo da dieci miliardi rispetto ai desideri di Bruxelles potesse provocare uno tsunami sui mercati mondiali. In realtà il problema è diverso e concerne una domanda a cui è difficile dare risposta: quanto sarebbe credibile Italexit se lo scontro si radicalizzasse? Aspetto serio, ma che mette in ombra altre questioni che hanno dimensione sovranazionale.

Proviamo a vedere cosa si profila all’orizzonte, al di là della questione italiana. L’affermazione del paradigma monetarista assegna alla politica monetaria il ruolo di tenere sotto controllo l’inflazione, poiché nel lungo periodo una politica monetaria espansiva non sortisce alcun effetto sull’economia reale, ma unicamente provocare fenomeni inflattivi. Gli strumenti impiegati dalle banche centrali sono allora quelli classici di questa impostazione: in particolare, a regolazione dell’offerta di moneta (fissazione dei tassi di rifinanziamento, operazioni di mercato aperto, etc.). Per effetto della crisi finanziaria che, partita un decennio fa dagli Usa si è estesa all’intero globo, la BCE ha trovato il modo di applicare i cosiddetti unconventional tools alle proprie politiche, trovandosi a fronteggiare un fenomeno opposto rispetto l’usuale crescita dei prezzi: un’inflazione troppo bassa, visto che la crisi finanziaria ha avuto impatti devastanti sul settore reale.

A partire dal 2011, la Banca Centrale Europea ha messo in moto una serie di politiche sul mercato dei bond pubblici tese a ridurre i rendimenti e a sterilizzare ogni politica di successivo aggiustamento, mantenendo così artificialmente bassi i tassi sui titoli di stato dell’Eurozona e riducendo peraltro i differenziali di rischio tra paesi rispetto alla loro tendenza effettiva, differenziali che riflettono a loro volta le difformità tra i fondamentali macroeconomici. Tradotto in soldoni, l’Eurosistema ha continuato a comprare massicciamente titoli di stato, anche con l’obiettivo di drenare questi asset dai bilanci bancari, immettendo nuova liquidità proveniente da creazione di base monetaria. Tale liquidità avrebbe dovuto essere disponibile per investimenti e consumi, ma il risultato è stato deludente.

L’obiettivo di contenimento dei tassi è stato peraltro determinato da una tendenza in atto: la tanto aborrita politica fiscale si è messa in moto immediatamente. Se prendiamo in considerazione il rapporto debito-Pil dell’Eurozona 18, questo si attestava nel 2007 al 65%, non lontano dal famigerato 60% previsto dai trattati, con valori dissimili tra paesi del Nord e quelli Mediterranei. Nel 2009, tale rapporto, per effetto di incrementi della spesa ma, soprattutto, di caduta del Pil, era balzato al 79,2%, raggiungendo il suo massimo nel 2014 ad un livello pari al 91,9% (Fonte Eurostat). Le politiche accomodanti della BCE più sopra illustrato trovano così come razionale anche la necessità di ridurre al minimo i tassi sui titoli pubblici, visto che già nel 2011 il rapporto debito Pil aveva compiuto un balzo del 30%, con tutti i problemi di sostenibilità che ciò può implicare per l’effetto indotto da disavanzi crescenti alimentati dal servizio del debito (componente interessi).

Oggi, per la BCE e le istituzioni europee questo programma non sembra più essere necessario. Tuttavia, nel 2017 il rapporto medio debito Pil sull’Eurozona si attestava all’86,7%, valore ancora significativamente alto e peraltro segnato da significativi arretramenti solo nei paesi strutturalmente più forti e con avanzamenti o stasi ancora una volta nei paesi del Sud.
Il venir meno del quantitative easing in questo delicato momento non può che portare a un riequilibrio dei rendimenti, che tenderanno ad aumentare per effetto del mancato programma di sterilizzazione di cui si è dato conto. Già in questa fase di rallentamento degli acquisti da parte della BCE si vedono progressivi riallineamenti nei valori dei rendimenti relativi dei diversi paesi, e non solo in Italia, ma anche in Portogallo (aumento dell’8% nell’ultimo mese) o in Grecia (+7,5% nell’ultimo mese).

Come posto in evidenza da Erik Nielsen, capo economista di Unicredit, “Il mondo finanziario sta procedendo a pieno ritmo nella strada della normalizzazione, così il rendimento dei cosiddetti asset privi di rischio sta salendo a una velocità notevole. Da un punto di vista fondamentale questo è naturale e desiderabile, ma in realtà ha anche molte implicazioni e una riguarda l’Italia”. Sul processo di normalizzazione, Nielsen aggiunge: “Quanto sta accadendo negli Stati Uniti con il rialzo dei rendimenti dei Treasury bond è la conseguenza di segnali macro forti dall’economia Usa. La crescita è forte, il mercato del lavoro dà segnali sempre più positivi, una maggiore inflazione core e una politica fiscale aggressiva lavorano tutti insieme per spingere al rialzo i rendimenti Usa. Con loro sono anche in risalita i titoli di Stato britannici e il Bund tedesco”.

Lo scenario che si profila, catalizzato dalle contrapposizioni politiche tra UE e il nostro paese, potrebbe avere effetti rilevanti sulla ricomposizione degli attivi bancari che porterebbero a una svalutazione della componente titoli di stato, dato che la crescita del rendimento è trainata da dalle vendite e, quindi, dalla riduzione dei prezzi. Senza politiche di acquisto da parte della BCE in grado di sterilizzare l’eccesso di offerta, e quindi la caduta dei corsi, i rendimenti sarebbero destinati, come detto a salire e con essi i tassi sul mercato primario durante la fase di collocamento di nuove emissioni. Patrimoni di vigilanza bancari contratti implicherebbero difficoltà nella concessione del credito all’economia reale. D’altra parte, le nuove emissioni di bond pubblici sconterebbero tassi maggiori sulle emissioni, riallineati ai rendimenti, con effetti penalizzanti sui bilanci dei governi. La dispersione dei rendimenti, che vedrebbe allargarsi la forbice tra paesi più robusti in confronto a quelli più fragili, consentirebbe ai secondi una minore possibilità di intervento fiscale in caso di nuove ondate di crisi.

La domanda che ci si deve porre è se con l’attuale valore medio nel rapporto debito Pil nell’Eurozona la scelta di far venire meno gli strumenti non convenzionali di politica monetaria sia saggia ed adeguata. Domanda lecita e centrale in questo momento, ma che non trova spazio nel dibattito pubblico, tutto concentrato altrove soprattutto per via dell’autoreferenzialità che ci contraddistingue.

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