La cucina identitaria strumento di relazione

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Identità individuale, collettiva e culinaria

Come molti termini, un tempo accettati pacificamente nel lessico comune e ora diventati improvvisamente spinosi, la parola «identità», specie se declinata in senso collettivo, suscita al giorno d’oggi sentimenti contrastanti.

È un tema, quello del rapporto tra identità individuale e identità collettiva, che attraversa tutte le epoche e tutte le civiltà e che ogni epoca e ogni civiltà ha gestito in termini quantomeno problematici.

La coscienza di sé deve fare i conti quotidianamente con una realtà che fa della relazione con i propri simili, sia per ragioni affettive, sia per quelle eminentemente pratiche, una necessità e con essa l’esigenza di riconoscersi inseriti in una comunità sia essa materiale, sia ideale, nella sua forma laica o in quella religiosa.

L’essere al contempo cittadini del Mondo, e quindi liberi di mescolarsi senza pregiudizi in qualsiasi contesto sociale e culturale, e riconoscersi in una comunità, sia per ragioni di lingua, di cultura, di somiglianza dei tratti somatici, è qualcosa con cui tutti, prima o poi, spesso in età adolescenziale, facciamo i conti.

La preparazione del cibo

L’atto della preparazione del cibo, che da attività volta alla pura sopravvivenza ha assunto progressivamente valore culturale, non si sottrae a questa dicotomia.
Non ci basta, infatti, che il cibo che mangiamo sia commestibile, possibilmente sano e buono, vogliamo anche che abbia un significato.

Paradossalmente giocano un ruolo fondamentale in questa ricerca di significato anche il cibo industriale e il junk food o cibo spazzatura.

Chi ne fa frequente o esclusivo uso manifesta a se stesso e ai propri simili una forma di emancipazione: dai propri vincoli familiari, dalla necessità di preparare il cibo, dai riti collettivi che lo accompagnano.
Chi dice: mangio quello che capita dove capita rivendica in qualche modo la propria liberazione dal cibo e nel suo apparente accontentarsi esprime una forte dose d’individualismo.

All’opposto di questo atteggiamento c’è la cucina identitaria, un termine, dai molti significati in cui ciascuno può riconoscersi, che unisce cucina e identità.

La cucina degli affetti

È identitaria la cucina degli affetti, della propria cerchia familiare: si apprende a mangiare, con lo svezzamento, con il cibo preparato da altri da cui si dipende affettivamente e materialmente e questa dipendenza, che inizialmente suscita una forma anche infantile di ribellione (celeberrima l’immagine della Mafalda di Quino nel suo rapporto con l’odiata minestra materna) con gli anni si edulcora sino a diventare struggente quando coloro che preparavano il cibo della propria infanzia, il più delle volte le madri o le nonne, non ci sono più, e allora si cercano i sapori e i profumi perduti. È identitaria la cucina in cui si identifica una determinata comunità locale, talvolta anche molto ristretta, e che in Italia, dalla metà del secolo scorso, ha assunto, spesso operando notevoli forzature, connotazioni regionali.

La cucina delle minoranze

È identitaria la cucina delle minoranze etniche e religiose e degli immigrati che ritrovano negli ingredienti e nei piatti dei luoghi della loro origine o della loro cultura motivi di coesione interna e strumenti di «difesa» dalle inevitabili contaminazioni con il territorio in cui si sono inseriti. Ne sono testimonianza le varie little Italy del continente americano ed in Australia, i quartieri metropolitani a forte concentrazione di persone provenienti dal Medio Oriente, dall’Africa o dall’Estremo Oriente e gli ex ghetti ebraici europei in cui la cucina identifica spesso l’intera comunità. A Roma, ad esempio, è abitudine di romani e turisti recarsi nel quartiere a ridosso del Tempio Maggiore di Roma (popolarmente noto come la sinagoga) per gustare i piatti della cucina ebraico-romanesca, felice incontro tra due culture millenarie, ed in particolare i famosi carciofi alla giudia.

La cucina dell’estro

Egualmente è identitaria la cucina frutto del gusto e dell’invenzione del singolo, spesso al di fuori di ogni schema precostituito: manifestazione di abilità, gusto, capacità di scelta. Pochi atti inorgogliscono, quasi fossero esposizioni di opere d’arte, come il manifestare ai propri commensali che quella pietanza che stanno degustando è stata fatta con le proprie mani, con una ricetta, ovviamente segretissima, di propria invenzione o elaborazione.

L’identità come mezzo discriminatorio

V’è inoltre un aspetto discriminatorio, che pure non va sottaciuto, della cucina identitaria.
Nel rifiutarne, in primo luogo ogni minima alterazione degli schemi precostituiti, specie se proveniente dall’esterno della comunità di appartenenza.

Ricette codificate, spesso anche con scarso rispetto per la filologia del singolo piatto, in atti normativi, ribellioni pubbliche alle contaminazioni, come nel caso dell’ananas sulla pizza (quasi che la pizza, intesa come impasto di acqua, lievito e farina, avesse una propria identità nazionale o locale) o all’uso alternativo o aggiuntivo di ingredienti che non si ritengono appartenenti alla «tradizione», parola anch’essa dai molti contrastanti significati.

La cucina come veicolo dell’identitarismo, storpiatura contemporanea dei nazionalismi del primo dopoguerra, nell’eterna ricerca del nemico straniero, accusato di voler imporre usi, costumi, religione e, ovviamente, cucina per snaturare la famosa tradizione, intesa nel senso più trito, e l’identità, quasi che questa fosse un dato cristallizzato ed immutabile.

Altrettanto discriminatorio è l’identificare in senso dispregiativo un’etnia in un piatto o un alimento: tedeschi mangiacrauti o kartoffel, italiani macaronì, svizzeri cioccolatai, francesi mangia baguette, vicentini mangia gatti.

La cucina identitaria è per sua natura divisiva?

V’è da domandarsi, specie in un periodo storico in cui gli elementi di divisione sembrano prevalere nella società civile rispetto a quelli unificanti, se vi sia spazio per una cucina identitaria che non sia a uso e consumo di ristrette comunità, nazionali o locali, che non costruisca muri, ma sia strumento di pace, di dialogo e di coesione tra i popoli.

Se la cucina identitaria, da strumento per marcare un territorio, rivendicare un’appartenenza, non possa essere, o quantomeno essere anche, un linguaggio non verbale condiviso oltre le barriere politiche, etniche, di tradizione, di lingua.

La cucina globale

Se l’unico strumento per realizzare una comunità mondiale anche nel cibo sia la creazione, mediata dal cibo industrializzato, di un unico gusto planetario.

Sono le domande a cui ha iniziato a rispondere, nell’ottobre del 2020, il Women for collective identities: peace, security and identitary cusine, il Progetto di cooperazione internazionale finanziato dalla Direzione generale per gli affari politici e di sicurezza (DGAP) Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale sulla pace, sicurezza, e cucina identitaria.

Un evento a cui hanno partecipato una donna egiziana, una giordana, due palestinesi, due israeliane che, collegate via streaming e sotto la guida dello Chef Giovanni Galesi, hanno lavorato insieme nei workshop cucinando piatti della loro tradizione partendo da una base comune come il couscous, diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo.

Viene tuttavia il dubbio che la vocazione dialogante della cucina sia stata in questo caso indotta da un fattore esterno, che per emergere abbia avuto necessità di un incubatore.
La domanda, quindi, resta aperta: il cibo, la cucina, sono elementi divisivi o unificanti? Sintetizzando il mio pensiero ritengo che dal punto di vista della storia umana il cibo sia divisivo, mentre la cucina, cioé la trasformazione del cibo, sia unificante.

In molte epoche ed in molti luoghi, in alcune parti del Mondo ancora oggi, il cibo, assieme all’acqua potabile, è oggetto di contesa, di lotta per la sopravvivenza.
La cucina è, invece, elemento unificante perché nasce da un’istintiva necessità di condivisione e connota il cibo di un dato culturale.

Un vecchio adagio recita che si cucina sempre pensando a qualcuno, altrimenti si sta solo preparando da mangiare ed è esperienza comune come cucinare solo per se stessi, ammesso che si abbia la voglia e la forza di farlo, svilisce l’atto e lo stesso cibo che si prepara.

Il carattere culturale della cucina si manifesta innanzitutto nelle diverse forme di espressione artistica, dalla pittura alla poesia, in cui essa è rappresentata, incide profondamente nel linguaggio, come nella parola compagno (colui che mangia il pane con un altro) o nel verbo condividere, che ha un chiaro riferimento al cibo diviso e distribuito, si esprime nei pasti rituali e nei precetti religiosi che da tempo immemorabile accompagnano il cibo: dai divieti della Bibbia, del Corano e dell’induismo alle allegorie religiose ebraiche e cristiane legate al cibo.

La cucina accompagna, sin dall’antichità, ogni forma di festività, sia civile sia religiosa, da quelle più consolidate nel tempo e nella tradizione a quelle relativamente più recenti come Halloween, che ha per protagonista la zucca, o il Thanksgiving day del mondo anglosassone nordamericano, nato da un episodio di condivisione del cibo tra i Padri Pellegrini, decimati dalla traversata e dalla carestia determinata dall’inidoneità a dare il raccolto sperato dei semi portati dalla madrepatria, ed i nativi americani che avevano trasferito ai nuovi arrivati la loro sapienza nella scelta degli animali da allevare, il tacchino, dei vegetali da coltivare, soprattutto zucca e mais, e del modo di cucinarli.

Si cucina perché qualcuno ci ha insegnato a farlo e questo qualcuno è, nella stragrande maggioranza dei casi, una persona alla quale si è legati affettivamente o che ha fatto parte del proprio percorso formativo e qui si registrano due estremi, in parte esagerati, specie recentemente, dal marketing e dai media: quello della Nonna e quello dello Chef, parola che nel tempo, da semplice elemento di identificazione di un ruolo nell’ambito della cucina professionale, ha assunto il valore di titolo onorifico.

La famosa Torta della nonna, che ha avuto improvviso successo nella ristorazione della fine del ‘900, è l’esempio forse più famoso di utilizzazione a fini commerciali di questa figura in ambito culinario, mentre l’esplosione televisiva degli Chef ne ha dilatato l’importanza anche sul piano della considerazione sociale.

Far assaggiare una propria preparazione, frutto della propria tradizione familiare o di estro personale, è comunque un modo, non verbale, di rapportarsi con gli altri ed è proprio in questa gestualità che emerge la peculiarità relazionale della cucina identitaria, posto che questa azione non avrebbe senso al cospetto di un cibo preconfezionato o standardizzato, perché in un modo o nell’altro la cucina identitaria racconta una storia, personale o collettiva.

Il cibo preconfezionato sfama, si consuma, spesso compulsivamente e automaticamente, magari facendo altro (come per i popcorn al cinema o davanti alla televisione) i piatti identitari si gustano, prendono tutta la scena, come nel caso del Commissario Montalbano, popolare personaggio televsivo di Andrea Camilleri, che non tollerava la conversazione durante i pasti, ovviamente identitari, lasciando parlare il cibo.

Paradossalmente noi italiani, che ci consideriamo dei buongustai, siamo tra coloro che sono meno disposti ad assaggiare la cucina identitaria degli altri e questo forse è uno degli elementi che rafforzano la diffusa convinzione nazionale della superiorità della cucina italiana, che indubbiamente ha infiniti pregi, merito in massima parte della ricca biodiversità della Penisola, rispetto a quelle degli altri popoli.

Cosa rende realmente identitari un piatto, una preparazione?

Può essere un singolo evento, l’invenzione o la riedizione di una preparazione risultato di una ricerca personale ed originale che dà a quella preparazione una sua identità definita, talvolta un nome proprio.
Un tempo i cuochi delle famiglie altolocate davano ai piatti i nomi di coloro presso cui prestavano servizio.
Gli esempi più famosi, entrati nei libri di cucina e nel linguaggio comune, sono molteplici: dalla salsa besciamella, così nominata per onorare Louis de Béchameil, marchese di Nointel, ai sandwich, che hanno preso il nome dal conte di Sandwich che se li fece preparare nel suo club per poter giocare a carte senza interruzioni, dal filetto alla Wellington, nato per soddisfare i gusti sofisticati del Duca di Wellington, a quello preparato in onore del conte Russo Pavel Stroganoff sino al filone delle preparazioni «alla Bismarck», dedicate al cancelliere tedesco Otto von Bismarck non si sa se perché rispondenti ad un suo gusto personale o perché il loro alto valore proteico rispecchiava l’immagine internazionale, forte e determinata, del personaggio.

Può essere un ingrediente diffusosi in una determinata epoca in un dato territorio, ma che non necessariamente deve essere autoctono: il Gulyás (meglio noto come goulash), piatto identitario della cucina ungherese che ha come elemento caratteizzante la paprika, nasce dall’introduzione della coltivazione del peperone, di origine americana, da parte degli occupanti ottomani.

Può essere frutto di una tradizione, familiare o collettiva, consolidata nel tempo così da realizzare un trasferimento di saperi da una generazione all’altra ed in questo caso la filologia risulta fondamentale evitando le trappole della memoria collettiva. I maritozzi, ad esempio, vanto dei Bar della Roma degli anni ’50 e ’60, hanno con ogni probabilità origine medievale se non ancora più risalente e sono certamente più antichi della pizza napoletana, che data grosso modo la metà dell’800 e sicuramente della pasta secca al pomodoro che invece inizia a diffondersi come alimento popolare tra la fine dell”800 ed i primi anni del ‘900.

Viceversa non sono identitarie per eccellenza le patatine chips, caso emblematico in cui il prodotto industriale confezionato ha completamente soppiantato, nel consumo e nel gusto, quello artigianale. Dei singoli piatti identitari, non solo italiani, e delle loro origini, tra riscontri storici e leggende, parleremo però, se ce ne sarà data occasione, un’altra volta.
Buona cucina.

Foto di Anna Jurt da Pixabay

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