Il Mondo di frutta candita

frutta candita

«Apri le tue braccia, voglio entrare anch’io

Nel tuo Mondo

Nel tuo Mondo

Nel tuo Mondo di frutta candita

Di disegni colorati a matita».

Così cantava Gianni Morandi, su testo di Mogol e musica di Oscar Prudente, a metà degli anni ’70.

Un Mondo, quello favoleggiato nella canzone che dà il titolo ad uno degli album più suggestivi di Morandi, scomparso in tutti i sensi.

Quanti di noi, infatti, potendo scegliere un dolce preferirebbero quello che contiene la frutta candita e quanti, invece, si trovano a scartare con pazienza certosina i canditi che si trovano ancora nel panettone o in altri dolci?

Sostituiti in prevalenza dalle gocce di cioccolato, i canditi rappresentano, sotto molti aspetti, uno spartiacque del gusto anche dal punto di vista generazionale.

Eppure, come spesso accade, si è al cospetto di un ingrediente antichissimo, complesso ed elaborato.

Per moltissimo tempo, soprattutto a partire dalla metà del 1500, è bastato inserire la frutta candita, spesso accompagnata dall’uva passa,  in un qualsiasi impasto zuccherato e speziato per trasformarlo magicamente in un dolce per la gioia soprattutto dei bambini in epoche in cui la merenda o la colazione con i livietati dolci  erano un premio e non una stanca abitudine.

La storia della frutta candita è ovviamente controversa visto che il saccarosio, che è essenziale alla canditura, è stato utilizzato sin dall’antichità come conservante naturale.

Lo stesso termine «canditura», il trattamento cui è sottoposta la frutta, che dovrebbe derivare dall’arabo qandat, a sua volta derivato dal sanscrito, indica lo zucchero, cioé il nome comune con cui ormai identifichiamo la sostanza cristallina dolce costituita dal saccarosio. 

Un metodo, quello di conservazione in zucchero di frutta e verdura, conosciuto già in Mesopotamia e giunto sino a Roma, ma che è solo lontano parente della canditura vera e propria che si deve agli Arabi che vi giunsero già a cavallo tra il IX ed il XII secolo, si deve ipotizzare dopo lunghe sperimentazioni, grazie all’estrazione del saccarosio dalla canna da zucchero (detta anche cannamela), la cui coltivazione gli stessi Arabi introdussero prima in Spagna e poi in alcune zone della  Sicilia e che fu estesa a tutta l’isola sotto Federico II di Svevia venendo a cessare quando la produzione sudamericana, che si basava sullo sfruttamento degli schiavi, ne rese antieconomico il procedimento al cospetto delle grandi risorse idriche e di combustibile (soprattutto legna) che la produzione siciliana comportava.

Grazie al «sale arabo», come i Veneziani chiamarono lo zucchero che iniziarono ad importare in Europa a prezzi proibitivi, e che era parificato, per valore e commercio, alle spezie più pregiate, gli Arabi realizzarono i canditi come li conosciamo ancora oggi e che, non casualmente, utilizzano prevalentemente la scorza di arancia, quella di cedro e le ciliegie intere: frutti tipicamente siciliani, calabresi e di tutto il Mondo arabo.

Un tentativo, non pienamente riuscito, di canditura in miele fu realizzato dai cuochi francesi per affrancarsi dall’importazione dello zucchero di canna dalla Spagna e dalla Serenissima.

Se ne trovano traccia e ricetta ne «Le Ménagier de Paris» a cura di Jérôme Pichon, ma il risultato, in termini di gusto e di resa, è di gran lunga inferiore a quello della canditura all’araba.

Fedele alle proprie origini allora è proprio la sontuosa pasticceria siciliana quella in cui la frutta candita, che pure è parte importante della pasticceria araba e di quella ebraica, ha il suo meritato trionfo sia in termini di gusto, sia come delizia  per gli occhi.

Dalle Cassatelle di Sant’Agata (dette anche, per la loro tipica forma,  minne di Sant’Agata) alle Sfince di San Giuseppe, dal Buccellato alle Scorze candite al cioccolato per arrivare infine ai Cannoli e soprattutto alla Cassata siciliana, con le sue ricche decorazioni barocche di ghiaccia reale e frutta candita e che deve il suo aspetto contemporaneo al Cavalier  Salvatore Gulì, il pasticcere che la presentò a Vienna nel 1873.

Barocca è probabilmente l’aggettivo che meglio si addice alla frutta candita: elaborata nella preparazione, capace come pochi ingredienti di catturare la luce e restituirla, con quella doppia consistenza, prima croccante e poi morbida, che nei prodotti di migliore fattura si trasforma in una sorta di esplosività che immediatamente avvolge gusto ed olfatto, ma presto lascia pulita la bocca.

Certo per un risultato simile non è possibile utilizzare i prodotti industriali che trasformano i canditi in cubetti gommosi, senza sapore e senza profumo, che rappresentano solo un ostacolo alla degustazione del dolce, si attaccano ai denti fino a trovare naturale liberarsene con una frettolosa deglutizione.

La canditura richiede tempo, sapienza ed ingredienti di primissima scelta e ovviamente mal si concilia con il cibo preparato frettolosamente e ancor più frettolosamente gustato.

Dolci che vanno assaporati lentamente in cui l’equilibrio tra le diverse consistenze ed i sapori rasenta l’arditezza architettonica.

La frutta candita richiama notti orientali di profumi di spezie e colori sgargianti, dolci di lenta e lunga preparazione e di pari lenta e meditata degustazione.

A suo modo aveva ragione Gianni Morandi: la frutta candita è un Mondo, da gustare oggi e preservare per le generazioni future.

Foto di gate74 da Pixabay

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