
Il 1° aprile del 1957 la BBC mandò in onda «The Swiss Spaghetti Harvest» (La raccolta degli spaghetti svizzeri). Un documentario in cui, con dovizia d’immagini e la narrazione di Richard Dimbleby, il più autorevole reporter della rete, si descriveva la coltivazione degli spaghetti che al momento giusto venivano raccolti dagli alberi del Canton Ticino.
Il documentario, ad oggi il più riuscito pesce d’aprile gastronomico, ebbe un successo tale da giustificarne il rifacimento, giusto dieci anni dopo, da parte dell’emittente televisiva australiana HSV-7 di Melbourne che sostituì alle contadine svizzere le donne palermitane emigrate in Australia.
In entrambi i casi milioni di persone credettero in perfetta buona fede che gli spaghetti crescessero sugl’alberi.
Lo scherzo dimostrò da un lato l’autorevolezza del mezzo televisivo, che stava soppiantando gli altri strumenti di divulgazione, dall’altro la progressiva perdita di contatto da parte delle popolazioni urbanizzate rispetto alla produzione del cibo.
Anche noi italiani, per i quali uno scherzo simile appare infantile, non sapremmo in realtà descrivere come avviene effettivamente la produzione della nostra amata pasta e ci affidiamo in massima parte ad informazioni che hanno carattere prettamente pubblicitario visto che le etichette riportano solo gl’ingredienti, i valori nutrizionali, il luogo e lo stabilimento di produzione.
Termini come «trafilata al bronzo» e «lenta essiccazione», uniti alla colorazione chiara, ai maggiori tempi di cottura, alla ruvidità e alla garanzia d’impiego di «solo grano italiano» sono entrati ormai nella percezione dei consumatori come indici di maggiore qualità, ma quanto incidano realmente sul prodotto finale rimane estremamente vago.
Se la produzione della pasta di semola di grano duro, il nostro alimento simbolo, presenta ancora molti elementi di ambiguità, miglior sorte non è riservata ad altri ingredienti di uso quotidiano come la frutta, la verdura, lo stesso olio extravergine d’oliva di cui i più ignorano le caratteristiche sensoriali che distinguono un prodotto buono da uno cattivo.
Il mito della campagna
Siamo ancora prigionieri di una visione bucolica della produzione agroalimentare confondendo spesso il rispetto per la natura con l’uso di tecniche arcaiche che non sono di per se stesse garanzia di qualità.
A costruire il mito della campagna come una sorta di mondo a parte, sostanzialmente estraneo alla modernizzazione, contribuiscono moltissimi fattori sociali e culturali.
Quello oggi probabilmente più rilevante è la crescente diffusione degli strumenti di relazione telematici a scapito del contatto diretto e del rapporto personale.
Il risultato è la contraddittorietà e la frammentarietà delle informazioni in nostro possesso, orientate dai creator digitali.
Abbiamo di fatto delegato al comparto agroalimentare la tutela del territorio, che la parte urbanizzata della popolazione pretenderebbe di ritrovare intatto, dimenticando la dimensione imprenditoriale della produzione del cibo, la necessità di far quadrare i conti, di assicurarsi il benessere e quindi, in buona sostanza, l’esigenza, per non essere costretti a fare altre scelte di lavoro e di vita, di scendere a compromessi in termini di varietà coltivate, redditività, tecniche di coltivazione.
E così, mentre un qualsiasi cittadino trova normale accompagnare i figli in automobile alla scuola sotto casa, inorridisce di fronte alla meccanizzazione o all’automazione dei processi agricoli.
L’Oleoturismo e le nuove forme di esplorazione del territorio come arricchimento sensoriale e personale
L’Oleoturismo, di cui si è fatta instancabile ambasciatrice la giornalista Fabiola Pulieri, ha fatto, forse involontariamente, da apripista ad un nuova forma di esplorazione dei territori che si esprime anche in altre iniziative come quelle legate al «foraging» (il riconoscimento, la raccolta e la trasformazione in alimenti dei vegetali spontanei) oppure SEMI*N AZIONE del Comune di Lugnano in Teverina, dedicata al libero scambio dei semi autoprodotti.
Esperienze di contatto diretto e personale col territorio viste non solo come occasione di acquisto consapevole nelle realtà in cui nasce il cibo, ma anche di arricchimento sensoriale e personale e di comprensione dei problemi e delle difficoltà di coloro che si sostentano con la produzione agroalimentare.
Iniziative che possono rappresentare un significativo antidoto ad una percezione esclusivamente virtuale della produzione del cibo e, allo stesso tempo, all’overtourism oltre che un ulteriore sbocco professionale per i nuovi laureati in scienze enogastronomiche.
Tornare con i piedi nella terra
La trattatistica culinaria italiana si è caratterizzata, sino al dopoguerra, per una particolare attenzione verso il riconoscimento degl’ingredienti, di cui spesso si fornivano istruzioni di dettaglio, frutto di un rapporto decisamente più stretto di ora tra la cucina e la produzione.
Un’attenzione ed una conoscenza che progressivamente hanno perduto importanza per la facilità di reperimento di ogni tipo di prodotto agroalimentare.
Il risultato è una cucina sicuramente più ricca di alimenti pregiati, ma in fondo impoverita perché gl’ingredienti che si padroneggiano sono sempre di meno.
Negli scaffali della grande distribuzione e negli ordinari mercati di quartiere l’offerta degli ortaggi e delle erbe aromatiche è sempre più ridotta e omologata ed è la causa più importante della perdita della biodiversità, di cui tutti a parole ci dichiariamo paladini.
Siamo tutti tentati d’imputare questo impoverimento alla filiera, che limita l’offerta, ma ci dimentichiamo che nella spesa delle famiglie e nella comune ristorazione, al di fuori del circuito dell’Alta Cucina o dell’agri-cucina, la domanda di prodotti come le erbe spontanee, la maggior parte delle erbe aromatiche e delle varietà arcaiche di ortaggi e di frutta è di dimensioni risibili soprattutto per ignoranza, mancanza di curiosità, abitudine.
Tornare tutti, cuochi e consumatori, con i piedi nella terra è forse l’unico rimedio.
Foto di JACKSON FK da Pixabay
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