Quattro momenti di felicità. La rivelazione dell’anima nel quotidiano

quattro momenti

C’è una forma di felicità che non grida, non si annuncia, non ha bisogno di testimoni. È una felicità silenziosa, verticale, che accade nei luoghi più semplici e nei gesti più dimenticati. Una felicità che si presenta come una rivelazione, non dell’eccezionale, ma dell’essenziale. Non si tratta di un’emozione, ma di una presenza, un ritorno dell’anima alle cose.

Questi momenti, apparentemente banali, sono in realtà varchi simbolici. Appartengono a quella dimensione del sacro che Mircea Eliade chiamava “hierofania”: manifestazioni del divino nel quotidiano. Ma sono anche esperienze profonde dell’archetipo, secondo la lettura junghiana, e immagini dell’anima, secondo Hillman. Esaminiamo quattro momenti di pura felicità

La felicità è fatta di piccole cose

Può sembrare assurdo, ma sei può avvertire una grande felicità anche semplicemente sedendosi a terra. Non su un trono, non su una poltrona, ma direttamente sul suolo. Lì, dove comincia ogni civiltà e ogni rito. Sedersi a terra è un atto primordiale: è ricongiungersi al grembo del mondo, è deporre il peso dell’ego e tornare a essere corpo in ascolto.

Secondo Merleau-Ponty, il corpo non è un oggetto nel mondo, ma la nostra apertura al mondo. In quel contatto con la terra, il corpo cessa di essere strumento e torna ad essere coscienza incarnata.

Per Hillman, non è tanto il gesto in sé a guarire, quanto l’immagine che lo abita: la terra come madre arcaica, contenitore del senso, luogo di alleanza tra visibile e invisibile.

La potenza di un abbraccio

Il secondo momento si manifesta nell’abbraccio con l’animale. Il cane, in particolare, non è solo un compagno, ma un ponte tra il mondo umano e quello istintivo. Jung considerava l’animale interiore come simbolo dell’ombra, del Sé non addomesticato, della nostra parte più autentica.

Ma vi è anche qualcosa di più sottile: l’animale non giudica, non proietta, non chiede. Esiste. Ed è proprio nella sua pura esistenza che risiede la possibilità della relazione originaria, non inquinata dalla parola.

Nel silenzio di questo abbraccio si attiva una memoria preverbale, un sentire transpersonale, che non distingue tra l’Io e l’altro. È l’antico ricordo di un tempo in cui l’umano non era separato dal cosmo.

Istesso discorso vale quando si abbraccia un albero. Gesto che può apparire ingenuo, eppure carico di potenza simbolica. L’albero, in tutte le tradizioni, è asse del mondo, axis mundi, collegamento tra la profondità e l’altezza, tra le radici invisibili e la luce.

Eliade lo considerava un simbolo universale del sacro, presente in ogni cultura arcaica. Ma anche nella psicologia archetipica di Hillman l’albero è immagine vivente dell’anima del mondo: non rappresenta qualcosa, è qualcosa.

Abbracciare un albero è un gesto di riconnessione: è toccare la pazienza del tempo, la stabilità che si oppone al caos, l’antica saggezza che scorre nella linfa. È un atto di affidamento: l’umano che si appoggia al vegetale per ricordarsi di essere parte della stessa materia.

Il profumo della felicità 

Il terzo momento, più sottile ma non meno potente, è la percezione improvvisa di un profumo nell’aria. Non un odore qualsiasi, ma quello che spalanca le porte della memoria emotiva. Citronella, gelsomino, odori d’infanzia: fragranze invisibili che riattivano il tempo circolare del ricordo.

Già Marcel Proust ne fece il centro della sua poetica, ma anche Andrea Camilleri — più vicino alla terra, meno rarefatto — ne colse la forza: un odore può riportare in vita un’intera stagione dell’anima.

Il profumo è, tra tutti, il senso più sciamanico: evoca senza parlare, agisce senza mediazioni. E proprio perché non passa dalla razionalità, è capace di risvegliare una gioia misteriosa, che non si sa spiegare ma si riconosce subito. È la felicità del ricordo che non ha bisogno di parole.

L’acqua tra dissolvenza e connessione profonda 

Il quarto momento – fra i tanti possibili, perché ognuno ha i propri – si manifesta nell’elemento più fluido e simbolico di tutti: l’acqua del mare. Nuotare non è solo un’attività fisica, ma un rituale di dissoluzione.

Il nuotatore si abbandona al grembo marino come il feto al liquido amniotico: non pensa, non controlla, non resiste. Il mare avvolge, sostiene, trasforma.

In molte culture sciamaniche, l’acqua è il regno della metamorfosi, della morte simbolica e della rinascita. E nella fenomenologia di Merleau-Ponty, il corpo immerso nell’elemento fluido non è più un soggetto separato: è flusso, respiro del mondo.

In quell’esperienza, l’ego si dissolve, il pensiero si ritira, e ciò che resta è una coscienza dilatata, oceanica, che si fonde con la bellezza circostante. La felicità, qui, è estinzione della separazione, puro essere.

Quattro gesti. Quattro soglie. Quando l’anima ci invita a tornare al centro del cosmo e del sé

Sedersi a terra, abbracciare un animale, toccare un albero, respirare un profumo, nuotare nel mare.

In ciascuno di questi atti, la felicità non è un’emozione passeggera, ma una rivelazione ontologica: qualcosa che dice, sommessamente, “tu sei questo”.

La felicità, allora, non è un traguardo, ma un ritorno. Un attimo in cui il tempo si apre, la mente tace, il corpo si fa oracolo, e il mondo — per un istante — torna a essere casa.

Foto di Pam Patterson da Pixabay

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