L’Alta Cucina è classista?

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Il lancio della passata di pomodoro e le altre forme di protesta messe in atto a Milano dagli attivisti di «Ultima Generazione» contro il ristorante di Carlo Cracco, uno degli Chef più noti anche grazie alla televisione, ha ricordato ai più quello delle uova contro le pellicce e gli smoking degli spettatori della Prima della Scala del 7 dicembre del 1968.

Allora come oggi l’obiettivo degli attivisti era l’ostentazione della ricchezza e allora come oggi i contestatori sono stati criticati per il loro furore ideologico al cospetto di una società in cui essere ricchi e godere della propria ricchezza non è certamente un crimine.

È lecito interrogarsi, tuttavia, se la protesta di «Ultima Generazione» contro l’Alta Cucina, di cui Cracco è uno dei simboli, sia solo un modo per ottenere visibilità o sia espressione di un disagio reale.

Le origini dell’Alta Cucina

Ciò che noi identifichiamo oggi come Alta Cucina (o fine dining), che per la maggior parte delle persone coincide con i «ristoranti stellati» premiati dalla Guida Michelin, nasce dall’opera di François Pierre de La Varenne, lo Chef francese che alla metà del 1600, con le «Le cuisinier François», rivoluzionò il rapporto delle classi agiate con il cibo introducendo concetti come stagionalità, freschezza, equilibrio dei sapori e gusto estetico nelle presentazioni.

Nel solco de La Varenne si è sviluppata l’Alta Cucina di Marie-Antoine Carême, François Massialot, Menon, Auguste Escoffier e Paul Bocuse e, da noi, di Luigi Carnacina, Gualtiero Marchesi e dei loro allievi. Una cucina capace di sopravvivere a cambiamenti epocali come la Rivoluzione Francese, l’avvento della borghesia come classe dominante, un paio di conflitti mondiali, la tecnologia applicata alla cucina e di trasformarsi, grazie alla Nouvelle Cuisine, facendo emergere la figura dello Chef non solo come Maestro d’Arte, ma come espressione di buon gusto, creatività, ricercatezza nelle tecniche e negli ingredienti al punto da diventare protagonista, in tempi recenti, dei mass media e d’impradronirsi del mezzo televisivo.

Se si va oltre l’apparenza, fatta di conti con parecchi zeri, l’Alta Cucina non è, di per sé classista perché, sin dalle sue origini, è un fenomeno che si è consumato esclusivamente nell’ambito delle classi agiate delle quali, nel corso di quasi cinquecento anni, ha forgiato il gusto ed il rapporto con il cibo.

Per la stragrande maggioranza della popolazione l’Alta Cucina, almeno sino alla fine degli agli anni ’70 del ‘900, semplicemente non è esistita perché le differenze sociali che si sono sempre manifestate nel cibo, e che Giuseppe Gioachino Belli ha spesso evidenziato nei suoi sonetti, si muovevano sul piano dell’alimentazione e non della gastronomia.

La cucina popolare come contrappeso dell’Alta Cucina

Quando, all’indomani del boom economico, una fetta crescente di popolazione ha avuto accesso alla disponibilità quasi illimitata del cibo i mass media, sia con le rubriche delle riviste rivolte ad un pubblico prettamente femminile, sia attraverso la televisione con Mario Soldati, Ave Ninchi e Luigi Veronelli, hanno di fatto snobbato l’Alta Cucina preferendo puntare sulla valorizzazione della cucina popolare. Un approccio frutto di una scelta politica di coloro che in un periodo di grandi trasformazioni sociali e di scontro acceso non hanno voluto gettare nella mischia dello scontro sociale anche la cucina ed infatti i contestatori del ’68 presero di mira la Prima della Scala e non i tavoli di «Biffi», lo storico tempio del lusso gastronomico milanese nella vicina Galleria Vittorio Emanuele.

L’Alta Cucina nella cultura di massa

Tra la fine degli ’70, con la Guida de L’Espresso, e la metà degli anni ’80, con «Al Gambero Rosso», l’inserto gastronomico de Il Manifesto, quotidiano comunista di stampo prettamente intellettuale, l’Alta Cucina ha fatto irruzione nella nuova borghesia progressista forgiata dal ’68, ma non si è manifestata come espressione di lusso, ma di buon gusto adottando un rapporto con la ristorazione fatto di esperienze sensoriali che sostituiva quello basato sulle quantità. Ed infatti buona parte della popolazione, soprattutto quella che non poteva permettersela, ha irriso inizialmente all’Alta Cucina proprio per le porzioni ridotte che, a prezzi elevati, non saziavano la fame.

Grazie alle Guide gastronomiche e, in misura diversa, a Slow Food, i figli scolarizzati del boom economico hanno scoperto le «eccellenze alimentari» inserendo la frequentazione di alcuni locali, come quelli condotti da Gianfranco Vissani e Massimo Bottura, ed alcune botteghe di prodotti alimentari di nicchia nel loro percorso formativo.

Mangiare in determinati locali, acquistare determinati prodotti alimentari spesso di produzioni assai ridotte ed altrimenti destinate all’estinzione, è diventato un atto politico ed un modo d’essere che ha sedotto i giovani acculturati figli della piccola e media borghesia, inevitabilmente con ridotte disponibilità economiche, ma disposti a sostanziose rinunce pur di mantenere questo nuovo rapporto col cibo in contrapposizione con il consumismo dilagante.

La crisi economica e le contraddizioni progressiste del «siamo quel che mangiamo»

I contraccolpi sociali della crisi economica, che vede l’Italia accusare una perdita di quasi il 10% rispetto al potere d’acquisto dei salari del 2008, sono evidenti, con la riemersione di problemi che si credevano superati: l’accesso alla casa, alle cure, all’istruzione superiore, ma non occupano l’agenda politica nazionale ed europea.

Parallelamente i «rich kids», i giovani rampolli di famiglie di industriali e finanzieri che possono permettersi di spendere senza pensieri, hanno «scoperto» l’Alta Cucina e le eccellenze alimentari ed in qualche modo ne hanno stravolto il loro significato recente trasformandoli da esperienze sensoriali e modalità di sostegno delle piccole imprese agroalimentari rispettose dell’ambiente in occasioni di sfacciata esibizione della ricchezza da esporre in modo quasi ossessivo sui social media.

Coloro che si ritenevano i naturali destinatari di questi servizi e di questi prodotti d’eccellenza, dopo aver predicato il «siamo quel che mangiamo» di Feuerbach ed aver demonizzato la Grande distribuzione e la ristorazione di massa come approcci radicalmente e politicamente sbagliati al cibo sono rimasti spiazzati e si è innescato un senso di frustrazione che è assai probabilmente alla base di fenomeni di contestazione come quello di «Ultima Generazione» verso Carlo Cracco colpevole forse solo di una certa dose di sovraesposizione mediatica.

La trasformazione silenziosa del variegato mondo del cibo d’eccellenza

In Italia chiudono sempre più ristoranti «stellati»: una ventina nel corso dell’ultimo anno. Per esperti dei cibo come Massimiliano Tonelli di Cibotoday non è una cattiva notizia, ma un segno fisiologico di trasformazione.

Gli Chef di valore si riciclano in altre forme di ristorazione, come le nuove trattorie, con meno orpelli e costi decisamente più contenuti, ma un livello medio-alto e prezzi che vengono incontro alla media e piccola borghesia falcidiata dalla crisi economica.

Fioriscono le risto-pescherie, che grazie ad un taglio consistente della filiera riescono a contenere i prezzi, e gli Agri-Chef che impiegano quasi esclusivamente alimenti autoprodotti.

A loro volta le botteghe di eccellenze alimentari scontano l’aumento consistente dei costi e dei prezzi, ma offrono servizi di selezione e di ricerca che vanno giustamente remunerati, mentre si moltiplicano, nei Mercati Contadini piuttosto che negli eventi, le occasioni d’incontro tra produttori e consumatori e la stessa Grande distribuzione offre, spesso in corner appositamente dedicati, prodotti di buona qualità a prezzi relativamente contenuti.

Chef a domicilio di buona caratura e delivery di qualità vengono incontro alle esigenze di coloro che preferiscono le mura domestiche per festeggiare i loro eventi tagliando i costi in modo considerevole.

Ridurre l’Alta Cucina a pochi locali esclusivi ed il buon cibo ad un fenomeno classista è quindi una semplificazione ideologica inutile e dannosa, ma per disinnescare certi fenomeni è necessario lo sforzo di un intero comparto.

Se mangiare è un atto politico, come diceva Carlo Petrini, cucinare combinando a prezzi ragionevoli ingredienti eccellenti e prodotti di buona qualità affinché mangiare bene non diventi appannaggio solo di pochi privilegiati lo è ancora di più.

Foto di Robert Kovalek da Pixabay

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