Giordano Bruno – Processo alla filosofia

Laureato in teologia ed ordinato frate domenicano, Giordano Bruno abbandona ben presto la veste monastica e gira l’Europa del tardo Cinquecento, divulgando la sua filosofia che auspica un’unica espressione divina comune a tutte le genti, al di là del particolarismo religioso; filosofia da lui stesso definita nolana dall’amato paese natio, Nola; e nolano sarà lui stesso agli occhi della storia. Entra in amicizia con regnanti e professori. Insegna lui stesso in prestigiose università. Elabora un originale sistema di mnemotecnica, nonché una concezione tutta copernicana dell’infinito. Si interessa di magia. Giudicato eretico dal Sant’Uffizio romano, muore sul rogo. Oggi è simbolo del libero pensiero.

Il 22 maggio 1592 Venezia è testimone dell’arresto di Giordano Bruno, frate domenicano e filosofo di grande fama, accusato d’eresia.

In quei giorni Bruno ha lasciato Francoforte su invito di tal Giovanni Mocenigo, patrizio veneziano, il quale lo ha richiesto come precettore, desideroso di imparare la sua filosofia e, soprattutto, le arti magiche che, a detta di molti, Bruno possiede. Una diceria, questa, che ben gli si adatta, poiché, pur appartenendo ad un ordine monastico, è senza dubbio un personaggio fuori dall’ordinario. Le sue idee sono un insieme di filosofia, teologia, scienza ed intuizione. Vagheggia una religione universale fondata sulla fede in Dio, al di là di ogni dogma; un Dio così grande da esistere in ogni essere vivente, in ogni più piccola cosa terrena, ed anche in un infinito fatto di altri mondi oltre la Terra, di altre stelle oltre il Sole; concetto, questo, che, qualche anno dopo, costerà la condanna e l’abiura a Galileo Galilei.

Invero le idee del nolano erano già state tacciate di eresia. La prima volta a Napoli, nel 1576; la seconda a Roma, poco dopo, dove, all’accusa di eresia, si era aggiunto il sospetto che avesse ucciso un confratello, cosa che lo aveva convinto a dismettere la veste monastica ed a partire per l’Europa, nonostante anche lì l’eresia mietesse molte vittime.

La Chiesa cattolica, infatti, è, in quegli anni, particolarmente intransigente con le dottrine eterodosse. Dopo la spaccatura insanabile generata dal contrapporsi di Riforma e Controriforma, sta attraversando una delle peggiori crisi della sua storia, che la rende vulnerabile e, per ciò stesso, aggressiva. I tribunali dell’Inquisizione impartiscono in ogni dove le più aspre punizioni per chiunque esca dagli schemi del dogma cattolico. Si accendono molti roghi e piovono scomuniche e scismi.

Nei suoi viaggi, Giordano Bruno entra in stretto contatto con molti illustri personaggi che la Chiesa non vede di buon occhio. A Ginevra si avvicina al calvinismo, che ben presto, però, ripudia, criticando aspramente il suo più illustre teologo, cosa che, nel 1579, gli costa il carcere, eluso solo presentando pubbliche scuse. In Francia rimane due anni ad insegnare filosofia e scienze naturali tra Lione e Tolosa e, nel 1581, si trasferisce a Parigi ove diviene uno dei lecteurs royaux e stringe sincera amicizia con Enrico III, con il quale ipotizza uno Stato difensore più della spiritualità che delle singole confessioni. Giunto a Londra nel 1583, tesse rapporti di reciproca stima con la protestante Elisabetta I. Tornato in Francia a causa dell’opposizione cattolica di Oxford, manifestata nel corso di alcune Dispute, invia una richiesta di perdono a papa Sisto V: a suo dire non ha ripudiato il cattolicesimo, lo vorrebbe solo riformato in senso più liberale. Sisto V non ha nomea d’essere un papa indulgente, eppure è tanta la stima che Giordano Bruno riesce a suscitare in tutti, persino in lui, che si mostra favorevole al perdono, purché rientri nei ranghi monastici; ma non è ciò che Bruno vuole, talché riprende il suo viaggio.

Nel 1586 è in Germania, dove esalta Lutero, definendolo “novello Ercole” vittorioso sul “Cerbero del triregno ecclesiastico”, ossia sulla Chiesa tridentina. Non è incoerenza, la sua, bensì, ancora una volta, manifestazione di una fede senza distinzioni di culto.

Si dedica, inoltre, all’insegnamento e soprattutto alla scrittura, pubblicando molti libri, testimoni delle sue idee, ma anche “prove” della sua eresia per l’inquisitore che lo giudicherà.

Soggiorno veneziano e primo processo

Il perché Giordano Bruno torni a Venezia pur avendo in Italia più di un conto in sospeso con l’Inquisizione è argomento che suscita curiosità. Sicuramente fare da precettore ad un ricco veneziano non è la sua massima aspirazione, visto che all’estero ha insegnato in varie università. Forse è attratto dalla cattedra vacante all’ateneo di Padova, dove trascorre i primi mesi; forse a renderlo tranquillo è il favore con cui Roma sta accogliendo alcuni pensatori sospettati di eresia, come il filosofo neoplatonico Francesco Patrizi; o, forse, è la distanza di Venezia dal fanatismo cattolico. L’Inquisizione da quelle parti è decisamente meno aggressiva, non a caso è la patria di Paolo Sarpi. A Venezia, dunque, il nolano trascorre un lungo soggiorno tranquillo, interrotto bruscamente solo dalla denunzia di Giovanni Mocenigo, il suo allievo, che lo trascina in tribunale. Il motivo è presto detto. Ritenendo esaurito il suo compito di precettore, Bruno gli annuncia l’imminente ritorno a Francoforte, dove avrebbe dato alle stampe un libro dedicato al nuovo papa, Clemente VIII, nella speranza di instaurare con lui quel dialogo di perdono e comprensione fallito con il defunto Sisto V. Mocenigo, però, ritenendo di non aver appreso abbastanza sulle arti magiche, quelle che più gli interessavano, lo denuncia all’Inquisizione per eresia.

Inizia il processo veneziano, anticamera di quello romano che lo condurrà a morte.

Bruno è sconcertato per la denunzia: “Io non tengo per nimico in queste parti alcuno altro se non il Sr. Gioanni Mocenigo ed altri suoi seguaci e servitori, dal quale sono stato più gravemente offeso che da omo vivente; perché lui me ha assassinato nella vita, nello onore e nelle robbe”.

Dopo l’arresto subisce diversi interrogatori, nel corso dei quali racconta la sua vita e spiega le sue opere. Ciò che è eretico per la teologia, egli afferma, non può esserlo per la filosofia, che studia il pensiero in ogni sua manifestazione.

Alla sbarra si susseguono molti testimoni. Com’era costume nel processo inquisitorio, la versione dei fatti voluta dall’inquisitore prevale sulla verità e genera ripensamenti ed accuse tardive. A Giambattista Ciotti, ad esempio, libraio a Venezia e tramite tra Bruno e Mocenigo, viene chiesto se Bruno vivesse da buon cattolico, ed egli risponde sicuramente di sì, non avendolo mai sentito “a dir cosa per la quale abbi potuto dubitar che non sia catolico e buon cristiano”; poi, però, incalzato dall’inquisitore, afferma che, in base ai sospetti del Mocenigo, aveva fatto qualche indagine a Francoforte ed alcuni studenti avevano affermato che Bruno viveva fuori da ogni religione.

Quanto alle prove documentali, il nolano, come detto, aveva pubblicato tanti libri da avere l’imbarazzo della scelta su dove reperirle. Tuttavia egli riesce a confutare l’esegesi altrui con tale maestria da seminare quei dubbi sufficienti a rendere incerta la condanna; inoltre chiede scusa. Parola magica. Dopo averlo fatto davanti ai calvinisti, ancora una volta tenta questa strada e, con ogni probabilità, l’espediente avrebbe di nuovo funzionato, se non fosse giunto il Sant’Uffizio romano a reclamare il processo. Su avviso del legato pontificio, membro del Tribunale veneziano, infatti, Roma invia il nunzio apostolico Lodovico Taverna a chiedere l’estradizione dell’imputato.

Il 27 febbraio1593, dunque, abbandonata la Serenissima e con essa la speranza d’essere prosciolto, Bruno entra nelle carceri dell’Uffizio romano, ove rimarrà per sette anni. Tanto dura il suo processo che si concluderà con la condanna pronunziata l’8 febbraio 1600 ed il rogo del 17.

Il processo romano ed il rogo

La Commissione Cardinalizia dell’Inquisizione romana, cui, a sua discrezione, il Papa era sempre libero di unirsi, era composta da dieci membri, di cui uno con funzione di Commissario relatore, chiamato a rappresentare l’accusa. Nel processo contro Bruno, ricopre tale ruolo il cardinale Bellarmino, difensore dell’ortodossia cattolica tridentina.

Nei primi tre anni è probabile che Bruno, ristretto nel carcere di Tor di Nona, venga ciclicamente indotto alla confessione, ma non subisce torture invalidanti e viene trattato quasi dignitosamente; si ha notizia di cure mediche, sebbene a cadenza non regolare, di tosatura di capelli e barba, persino di un rammendo dei suoi calzini: “per averli fatto racconciar un par de calzetti scudi 0,10” .

Molti i testimoni che si avvicendano, anche quelli che avevano già deposto dinanzi al Tribunale veneziano; molti gli interrogatori del Bruno, che, via via, si fanno più minuziosi. Stricte, veniva definito in gergo il processo giunto a quel punto, stringente. A ciò si aggiungano ben dieci suoi memoriali. Più volte viene indotto all’abiura, anche solo su singole posizioni ideologiche, ma Bruno pretende che sia riconosciuto il loro carattere eretico ex nunc, ossia a partire da quel momento e non da prima. La Chiesa non cede, né lo fa lui. Inoltre sa che abiurando, per bene che gli vada, lo attende il carcere e la cosa non gli interessa, poiché seppellirebbe con lui le sue idee; per quanto atroce, meglio il martirio, che può renderle eterne.

A metà gennaio del 1600 il processo entra nella fase conclusiva. E’ una battaglia ideologica che, attraverso asserzioni e confutazioni, vede due contendenti, Bruno e Bellarmino, fronteggiarsi da titani.

L’8 febbraio viene emessa sentenza di condanna al rogo. Secondo un testimone oculare, tal Kaspar Schöpp, Bruno è sereno e coraggiosamente esclama: “Voi fate contro di me questa sentenza forse con maggiore timore di quanto ne provi io a riceverla”. Di sicuro interpreta bene i sentimenti del Papa, che Schöpp descrive affranto, presumibilmente conscio che le idee del Bruno non sarebbero bruciate con lui.

Il 17 febbraio 1600, giorno dell’esecuzione, Campo de’ Fiori è gremito di gente sin dal mattino. La resistenza di Giordano Bruno all’abiura l’ha reso ancora più famoso della sua filosofia. Nonostante sette durissimi anni di carcere, procede verso la pira sulle proprie gambe, forte nel corpo e nello spirito. Non si piega, non si dispera, non urla. Il popolo comincia a sospettare che Dio sia dalla sua parte. Proprio ciò che voleva evitare Clemente VIII.

Viene spogliato e legato al palo; sotto i suoi piedi vengono sistemate le fascine che a breve arderanno. Una scintilla ed il fuoco si anima, bruciando la carne. Il fumo avvampa i polmoni. Il dolore è atroce. Poco dopo, una grande fiammata avvolge il corpo e la sua vita, infine, si spegne. Non così le sue idee.

Storia di un monumento

Nel 1874, quando l’Italia è da poco diventata uno Stato ed i Savoia sono entrati a Roma, Pio IX si dichiara prigioniero politico, emanando il non expedit, ossia il divieto, per i cattolici, di partecipare alla vita politica dello Stato, da cui prende vita la cosiddetta Questione Romana. Gli ideali cavouriani che informano la legge delle Guarentigie non allentano la tensione. In questo clima teso nasce il progetto di erigere, nel punto esatto in cui fu allestito il rogo, una statua in memoria di Giordano Bruno.

La resistenza cattolica alla realizzazione del progetto è simbolo dei contrasti tra Stato e Chiesa. Il monumento ad un “eretico per eccellenza”, arma laica contro la Roma papalina, viene inaugurato il 9 giugno 1889, con gran giubilo di Francesco Crispi e degli altri sostenitori del progetto, tra i quali molti intellettuali, come Hugo, Bakunin ed Ibsen. La statua bronzea, realizzata da Ettore Ferrari, reca sulla base un’iscrizione pregna di fervore libertario: “A Bruno, il secolo da lui divinato qui dove il rogo arse”.

La polemica, però, non si spegne e nel cinquantennio seguente il Vaticano continua ad esprimere disapprovazione. Nel 1929, durante i lavori dei Patti Lateranensi, papa Pio XI mette sul tavolo delle trattative l’abbattimento di quella scultura, riuscendo ad ottenere da Mussolini solamente il divieto di assembramenti in piazza.

Ancora oggi, nonostante la riabilitazione di Galilei, nonostante le scuse presentate da Giovanni Paolo II a tutte le vittime dell’Inquisizione, la Chiesa non riesce a separare dogma e filosofia nel leggere il pensiero del nolano, il quale resta quasi sospeso tra Paradiso ed Inferno, tra Libertà ed Eresia, al centro di una splendida piazza situata alle spalle di S. Andrea della Valle, chiesa della Tosca pucciniana e del suo eroico Cavaradossi, focoso adepto della prima Repubblica Romana. Toh, ancora un fuoco liberale, da quelle parti!

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