Paese che vai, usanza che trovi, si sa. E in UK, quasi ovunque, trovi una cosa che in Italia sta scomparendo: l’educazione.
I britannici sono sempre garbati: si scusano se solo ti sfiorano e si scusano se ti fanno attendere anche per un minuto, ti dicono grazie e prego, non ti spintonano nè ti passano avanti nelle file. Non gridano, non strepitano e parlano a bassa voce. Insomma, sono educati.
Essere bruschi e sgarbati, con loro, non paga: se lo farete, li vedrete irrigidirsi, raddrizzare schiena e collo fino a raddoppiare la loro altezza, alzare le sopracciglia fin quasi all’attaccatura dei capelli e fissarvi con un’espressione mista tra sdegno, disappunto e pena per la vostra condotta inappropriata. E non otterrete niente.
Insomma, è l’educazione che qui apre ogni porta. Fino a quando non stai per perdere un volo.
Arrivare ad Heathrow è facilissimo e molto veloce, basta raggiungere la stazione di Paddington e prendere il treno Heathrow Express: 15 minuti e si arriva in aeroporto. In macchina, partendo dal centro di Londra, non ci si impiega meno di un’ora, se va bene.
Gli Heathrow Express partono ogni 15 minuti e sono puntualissimi, sempre. E se non lo sono dovete preoccuparvi, come ho iniziato a fare io notando che il mio treno era in ritardo.
Dopo cinque minuti di attesa, durante i quali nulla si era mosso, letteralmente, i passeggeri hanno iniziato a guardarsi intorno, io ho incrociato lo sguardo di una donna dietro di me: lei mi guarda come a dire “Mbè?” ma in britannico, io rispondo con una smorfia della bocca, scuotendo la testa destra-sinistra come a come a dire “butta male”, ma in romano.
Dopo un’ulteriore, interminabile, attesa, la voce del capotreno ci aggiorna: c’è stato un grosso problema lungo i binari e i treni sono sospesi a tempo indeterminato. Panico.
Tutti i viaggiatori si sono riversati fuori dai treni e si sono sparsi per la stazione, diretti alle uscite. Io e la britannica di cui sopra ci siamo ritrovate vicine sulla banchina: la guardo, mi guarda, la guardo, mi guarda. Lei non parla, io le dico:
“We have a problem.”, dando prova delle mia immensa capacità intuiva.
Lei risponde:
“Oh, yes!”
Io le chiedo:
“Do you want to share a Uber?”, vuoi dividere un Uber con me?
“Ohhh, would be wonferdul!” dice lei e la vedo entusiasta.
Perfetto, apro la applicazione e cerco la macchina: arriverà in 7 minuti. La britannica ed io siamo la coppia perfetta: io mi occupo della parte tecnologica, lei parlerà con l’autista, in caso chiami per avere informazioni, come spesso fanno. Io non capisco mai niente: tra il mio noto deficit linguistico e lo strano britannico che parlano gli autisti, normalmente stranieri, è un incubo.
Mentre aspettiamo la nostra auto nel punto concordato, la fila per i taxi si snoda sempre più lunga.
“Lucky to have Uber!” ci diciamo.
I minuti passano, scadono i 7 dichiarati dal sistema elettronico ma la nostra auto non si vede: controllo sullo schermo e vedo che l’autista gira in tondo sempre nello stesso punto.
Aspettiamo ancora ma quando, dopo altri 5 minuti non ci sono progressi, decido che è l’ora di chiamare: tanto ho la madrelingua affianco e sono tranquilla.
“Helloooo” inizia lei, come se stesse salutando un amico di famiglia, con una “o” lunga un minuto, “Where are youuuu?” e glielo chiede con un garbo che io non riuscirei ad avere nemmeno se mi rivolgessi al Papa.
“Ohhhhh” continua lei e, guardandosi intorno, inizia a dare spiegazioni su ciò che ci circonda, descrivendo i luoghi con precisione e cortesia.
“Yes! Weeeeell, I don’t knooow… Okaaaay, thank youuuu”.
Che dice? le domando.
Dice che sta arrivando.
Passa il tempo e il rischio di perdere il volo aumenta proporzionalmente con il trascorrere dei minuti. Richiamiamo.
“Helloooooo!” fa di nuovo lei “We’re here, still waiting for youuu. Where are you nooow?” e ascolta, aggrotta la fronte, mi dice “non lo capisco nemmeno io”, il che mi ha consolato, poi gli dice “Well, I’m sorry but I dont’ know where is the bridge. Okayyyy. Five minutes again” e mi guarda come a dire “che devo fa’?”
Mi faccio passare il cellulare.
“Tell me immediately how long it will take you to get here.” dimmi subito quanto impiegherai ad arrivare, esordisco, ruggendo più o meno come una tigre.
“I’m fglarofjaorojcoasjoj gehr skrla fherpamfs” sento dall’altra parte.
“I don’t understand” dico, come fosse colpa sua, “This is not a joke. We have a flight.”
“Here tarhjs gjroajgorkspa fkrojajfoajs gkaorkddo”
“Ok, cancel the ride, now.”
“But gnsrodja feajfoirj vnbspskf there.”
“Cancel it now!” e attacco. Poi cerco un’altra macchina che arriva in un secondo, saliamo e via di corsa verso Heathrow.
“Sorry” dico alla mia compagna di viaggio, che mi sta guardando con un certo timore “Italians are rude compared to you British.”, noi italiani siamo bruschi rispetto a voi britannici.
“Well” inizia lei, che, in questo caso, sottende “hai ragione”, “I think it could be good: noi siamo sempre educati ma questo ci fa venire il mal di stomaco. Voi, invece, vi sfogate e, adesso, abbiamo anche la nostra macchina.”
E sì, paese che vai, usanza che trovi, l’educazione è una cosa meravigliosa ma anche essere rudi a volte paga ed io, che sono romana, di rudezza potrei dare lezioni (e me ne vanto).
Articolo tratto dal libro “Aiutatemi a casa loro. Una britannica a Londra” di Valentina Clavenzani
Scrivi