Birdman, sale occupate e ipocrisia intellettuale

185ce364e7Fresco di 4 O fra cui Miglior Film e Miglior Regia, all’ultima edizione degli Academy Awards, il film “Birdman (o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza)” ha fatto il giro del mondo, mietendo un discreto successo anche di pubblico.

Come tutti sanno, il film del regista messicano Alejandro G. Inarritu, racconta di un attore in declino, famoso un tempo per aver interpretato la parte di un supereroe, Birdman l’Uomo-Uccello appunto, e che ora si ritrova dimenticato dal pubblico, e il film descrive il suo tentativo di ritornare in auge grazie ad uno spettacolo teatrale a Broadway.

Al di là del fatto che il film sia piaciuto o meno (e a me ha lasciato un po’ perplesso per vari motivi), in ogni caso è un film che suscita tutta una serie di interessanti riflessioni. E’ un film, è vero, di un regista messicano, ma i temi che tocca riguardano in pieno le radici della cultura americana, e di conseguenza, essendo questa un’epoca di piena globalizzazione, lambiscono anche la nostra tradizione europea, meno dinamica e, proprio per questo, per certi versi più fragile.

Gli americani sanno cos’è il successo, la loro società si basa sull’idea di successo, ne è letteralmente impregnata. Gli americani dal successo sono letteralmente ossessionati. Il tutto con l’idea che al successo possano arrivare tutti, nei campi più diversi e, per il singolo, più congeniali.

In fondo si tratta di una tendenza a proprio modo molto democratica, almeno nelle premesse. Questa tendenza a idolatrare il successo, e coloro che ne beneficiano, genera una società dove è vero che i disturbi mentali sono molto diffusi e accentuati, però è alla radice del loro formidabile dinamismo sociale ed economico. In America l’imperativo del successo investe tutti i campi delle relazioni sociali, dallo sport all’impresa.

Non escluso il campo della cultura e dello spettacolo.

In America non esiste, o ha molto poca diffusione, l’idea di un settore, quello culturale, che debba essere sostenuto da investimenti statali, e che debba in qualche modo, secondo la norma dell’”Eccezione Culturale”, essere protetto dalla concorrenza di altri settori. O, peggio, che ci siano produzioni che in qualche modo, perché culturali, abbiano diritto ad un sostegno speciale, economico, pubblicitario o altro.
Da noi invece vige un altro tipo di concezione, per certi versi opposta, per altri schizofrenica. Una concezione che mette di fronte, in opposizione netta e inconciliabile, i prodotti commerciali da quelli “culturali”, i reality-show con le opere d’arte, o presunte tali. Una logica che in Usa sarebbe impensabile e improponibile.

Lo slogan che campeggia sugli striscioni esposti alle manifestazioni e nei foyer delle nostre sale teatrali occupate in sostanza è “la cultura è necessaria come l’acqua, come l’elettricità, non si appaltano le strutture della cultura ai privati, per farne commercio, come non si appaltano i beni di prima necessità..”. E’ la logica che anima i musei, le fondazioni, tutta quella ragnatela di enti che ruotano intorno alla cultura, comprese alcune tipologie di case di produzione cinematografica ecc.

Birdman parla di un attore frustrato, Riggan Thompson, ormai in declino, lontano dal successo di un tempo, quando vestiva i panni supereroistici e fumettosi dell’Uomo-Uccello e divertiva le platee di mezzo mondo. Thompson, ormai cinquantenne, si è riciclato nel teatro, tentando la regia in prima persona con un adattamento da un testo dello scrittore Paul Auster. Ma in realtà a questa riconversione ultra-sofisticata non crede realmente neanche lui. Se potesse, tornerebbe ai fasti di un tempo, di quando, giovane attore in vetta al box-office, volteggiava, grazie a fittizzi cavi d’acciaio e alle meraviglie della post-produzione, sopra i grattacieli della Grande Mela, nei panni di Birdman.

In America la cultura non si illude di sostituire il commercio: anche la più scalcinata compagnia teatrale indipendente sa che il pubblico, democraticamente, ha l’ultima parola. Anche nel settore dello spettacolo, i costi di un prodotto culturale non devono essere superiori agli incassi, pena il fallimento. E’ qui da noi che questa semplice equazione sembra essere stata dimenticata.

I centri culturali sono in rosso, le fondazioni stentano. Eppure la ragnatela degli interessi e delle relazioni è così fitta e solida che i soldi statali continuano ad arrivare a pioggia e a pioggia essere sperperati, a defluire nelle pieghe di un terreno sassoso e sterile e finire nella più completa tendenza dissipativa e sprecona.
I fatti del Teatro Valle Occupato, del Cinema America, se da una parte sono la testimonianza di una sensibilità giovanile tesa alla valorizzazione della cultura, e che non si arrende di fronte al malcostume e malgoverno politico, dall’altra fa emergere una tendenza autoreferenziale preoccupante.

Bisogna rilevare che, al di là del donchisciottismo di queste situazioni, il valore che emerge è la difesa di una cultura come bene non relazionabile al valore di mercato, di una cultura ripiegata su valori difensivi, retrodatati. Ben venga la difesa del nostro patrimonio culturale, sotto forma di sale che non devono chiudere, o musei che non devono essere lasciati all’abbandono. Ma non bisogna dimenticare che l’attenzione del pubblico, e spesso l’indotto economico che un’opera riesce a muovere, sono segno di salute di quell’opera, di condizioni di mercato positive, di valore aggiunto per le parti in gioco.

E’ difficile affermarlo in una società tesa all’assistenzialismo peloso come la nostra, ma anche le opere dell’ingegno devono per forza di cose subire, ed essere disposte a subire, il giudizio da parte del mercato. Il giudizio negativo del mercato non è una condanna a morte, anche il mercato può sbagliare, ci sono opere che possono essere recuperate, rimesse in circolo, diventare cult-movie, opere di culto postumo.

Ma non si può ignorare per partito preso la sentenza che il mercato esprime. Intanto perché si tratta di un atto profondamente antidemocratico. E poi perché si tratta di un atteggiamento che alla lunga danneggia il Sistema, e rischia di creare le premesse per un futuro deficit ancora più profondo. Un operatore culturale sa che il suo prodotto non può ignorare il mercato, e farà in modo di supportare opere valide, che riescano ad essere concorrenziali nel mercato, o almeno in una delle nicchie in cui il mercato è frazionato e suddiviso.

La logica Costi-Ricavi deve essere tenuta presente, senza nevrosi ma anche senza strozzature eccessivamente assistenziali. E’ una semplice equazione, ma da noi pare essere stata dimenticata, o comunque non si sa più come risolverla nel modo corretto.
Aiutare le opere di difficile fruizione, mediante una corretta diffusione critica, ad essere digerite e assimilate anche da parte di frange il più possibile ampie di pubblico, è una operazione corretta. Questo può avvenire senza portare allo scenario schizofrenico che abbiamo avuto di fronte per decenni: da una parte il becerume dei cinepanettoni, dei grandi fratelli, delle isole dei naufraghi famosi o delle fattorie, dei talk-show all’ultima rissa, dove il pubblico diventa massa e fagocita quanto di più degradato e scadente la programmazione propone. Dall’altra la riserva indiana delle “opere di interesse culturale” sovvenzionate dallo stato ma neglette dal pubblico, e davvero, senza il metro di un qualsivoglia mercato, alla mercè del clientelismo, del nepotismo e del legaccio politico.

Birdman ci parla della natura del successo, della perdita del successo e degli effetti che provoca su tutti noi. Si sa che gli americani sono un popolo criticabile, ma su certe cose sono meno ipocriti di noi. Anche Birdman vuole la sua parte. E gli americani, estremamente pragmatici, lo sanno molto bene.

di Gianfranco Tomei

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