Alimurgia: l’altro cibo vegetale

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«Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò». (Mt. 13, 24-25).

Nella parabola della zizzania, il nome comune con cui si indica il Lolium temulentum, c’è la sintesi del passaggio da un’agricoltura ancestrale, in cui ci si limitava a gettare il seme nella terra ed a raccoglierne i frutti, ad una selettiva in cui la terra viene lavorata affinché produca esclusivamente ciò che vi è stato seminato.

Nel racconto evangelico la presenza della zizzania è attribuita al «nemico» che però altri non è che la natura stessa la quale diventa maligna nel momento in cui non si piega all’antropizzazione: ce n’è abbastanza per smentire il luogo comune di un’agricoltura arcaica in armonia con la natura e l’ambiente.

La millenaria storia dell’agricoltura, al contrario, è, a ben vedere, la storia della lotta incessante del genere umano «contro» la natura la quale, anche se l’inurbamento contemporaneo è decisamente la modalità più impattante della presenza umana sul Pianeta, ha rappresentato la forma più diffusa e tangibile di antropizzazione del territorio, soprattutto in questo spicchio di Mondo: impossibile, ad esempio, concepire il paesaggio italiano collinare senza i filari di viti o gli oliveti secolari, le pianure senza la sequenza ordinata dei campi coltivati.

Se da un lato siamo affascinati dalle zone preservate dalla presenza umana, dall’altro ne siamo spaventati: da Cappuccetto Rosso ad Hänsel e Gretel generazioni di bambine e di bambini sono state educate a diffidare del bosco anche se la Storia insegna che orchi, lupi cattivi e streghe è più facile incontrarli sotto casa o addirittura dentro le mura domestiche.

L’agricoltura, nel corso dei secoli, ha rappresentato, ed in alcune zone del Pianeta vittime della politica delle monocolture intensive rappresenta tutt’ora, la principale causa della deforestazione ed è l’agricoltura, anche in tempi antichissimi, ad aver determinato la necessità delle grandi opere idrauliche: bonifiche e canalizzazioni, a scapito delle cosiddette zone umide.

Accanto alla modifica del territorio per renderlo più adatto all’agricoltura e quindi alla sopravvivenza umana – visto che i prodotti agricoli, ed in misura minore quelli zootecnici, sono la principale fonte di alimentazione umana – l’agricoltura ha determinato anche la selezione delle specie vegetali.

Sin dagli albori della civiltà agricola, infatti, lo scopo principale degli agricoltori è stato quello di selezionare le specie che avessero una maggiore predisposizione a dare frutto in relazione alle condizioni ambientali, una maggiore resa in termini produttivi ed una maggiore capacità nutritiva.

L’esempio più evidente è rappresentato dai cosiddetti prodotti americani: mais e patate su tutti, ed in misura minore pomodori e peperoni, i quali in tempi relativamente recenti hanno finito col soppiantare le coltivazioni locali perché rispondevano a tali caratteri.

Ha raccontato ad esempio Eleonora Matarrese, linguista ed etnobotanica, che nella Valle Anzasca, una delle valli trasversali della Val d’Ossola nelle quali l’agricoltura per ragioni ambientali era particolarmente difficile, nel tempo le patate andarono a sostituire i cereali più poveri, soprattutto segale e miglio, che così faticosamente le popolazioni locali cercavano di portare a frutto.

Ancora più rilevante, per dimensioni e diffusione, è stato il processo di selezione ed ibridazione: quasi nessuna delle specie botaniche attualmente coltivate può infatti definirsi realmente originaria visto che l’intervento umano è risultato spesso decisivo per la sua riproduzione.

In Italia l’operazione più massiccia è stata quella realizzata sui cereali negli anni ’20 e ’30 del ‘900 grazie a Nazareno Strampelli, agronomo e genetista marchigiano che, applicando ed approfondendo gli studi di Gregor Mendel (quello che abbiamo studiato a scuola per gli esperimenti sulle piante di piselli) realizzò un notevole numero di nuove specie cerealicole, la più famosa delle quali è la «Senatore Cappelli»: una varietà pregiata di grano duro pugliese.

Gli studi ed i risultati ottenuti da Strampelli costituirono i presupposti per la cosiddetta «Rivoluzione verde» iniziata in Messico grazie alla Rockefeller Foundation e che fino alla fine dello scorso secolo ha condizionato lo sviluppo dell’agricoltura mondiale moltiplicandone la produttività grazie al massiccio impiego, accanto alla selezione e all’ibridazione, di capitali che hanno permesso la meccanizzazione agricola e l’ingresso massiccio della chimica che ha fornito tutta una serie di strumenti come i fitofarmaci ed i fertilizzanti creando un modello di sviluppo agricolo che ora, come attesta la PAC – Politica Agricola Comune 2023, è fortemente messo in discussione anche dalle Istituzioni europee.

La soluzione al «dilemma dell’onnivoro»

A differenza del Koala che si nutre esclusivamente di foglie di eucalipto, scriveva nel 1976 lo psicologo statunitense Paul Rozin nel suo «The Selection of Foods by Rats, Humans, and Other Animals» (citato da Michael Pollan in «The Omnivore’s Dilemma A Natural History of Four Meals» in italiano «Il dilemma dell’onnivoro») la specie umana è diventata nel tempo onnivora la qual cosa ha determinato un notevole vantaggio competitivo nei confronti di altre specie, ma ha creato un dilemma: il dilemma dell’onnivoro, appunto che si esprime nella scelta che l’onnivoro è chiamato a compiere di fronte ad un alimento sconosciuto per valutare se esso sia, o meno, commestibile.

Prima della nascita dell’agricoltura la risoluzione di questo dilemma era delegata, per quanto riguarda i vegetali, alle raccoglitrici che tramandavano una sapienza tutta femminile nel riconoscimento delle erbe, delle radici e dei fiori eduli.

Se in termini quantitativi il risultato di questa scelta doveva essere presumibilmente scarso, anche perché il raggio d’azione delle raccoglitrici era gioco forza limitato ed il loro lavoro era influenzato da moltissimi fattori anche di tipo climatico, in termini di varietà e diversità dei vegetali raccolti è da presumere che il ventaglio fosse molto ampio fino a giungere, anche per ottimizzare la raccolta, a raccogliere tutto ciò che, per esperienza personale e saperi ancestrali, risultava commestibile.

L’agricoltura ha rovesciato completamente questo paradigma visto che ha dovuto fare una selezione che non fosse solo dettata dall’alternativa commestibile/tossico, ma ha dovuto introdurre elementi crescenti di resa e di produttività i quali, col progredire della selezione e delle tecniche agricole, sono diventati assolutamente prevalenti così che, al di fuori del mondo contadino, per la maggior parte degli individui è diventato commestibile solo ciò che era coltivato.

È in questa fase del processo che è nata l’estensione della nozione di «malerba» non solo a quelle varietà vegetali spontanee, come il Lolium temulentum, la zizzania evangelica, che è effettivamente un’erba tossica, ma tutte quelle piante definite «infestanti» perché non ubbidivano ad un preciso disegno produttivo e, pur essendo commestibili, erano di fatto competitive con quelle coltivate e ne riducevano sensibilmente la resa.

Il commercio dei prodotti agricoli ha ulteriormente accentuato questo distacco dalla soluzione iniziale del dilemma riducendo la scelta dei consumatori-non agricoltori non solo a ciò che era coltivato, ma a ciò che il commercio stesso rendeva concretamente disponibile anche perché oltre alla resa agricola si sono iniziati a prendere in considerazione altri fattori estranei alla produzione, ma decisivi per la distribuzione, come la disponibilità, la conservabilità, la trasportabilità, i margini di guadagno nella vendita.

Questa ulteriore fase del processo, nel quale in modo sempre più massiccio è entrata la grande distribuzione, ha determinato la contraddizione a cui assistono oggi i consumatori che vede una quantità crescente di prodotti agricoli disponibili a prezzi accessibili, ma una sostanziale riduzione delle varietà e paradossalmente questa realtà ha riproposto il dilemma dell’onnivoro.

Questo però non si esprime più nell’alternativa tra commestibile/tossico, ma che tra i consumatori più consapevoli si dipana in sano/non sano, giusto/non giusto, sostenibile/non sostenibile e tra quelli meno attenti in conveniente/non conveniente o, come peraltro suggeriva Brillat-Savarin, riduce tutto all’alternativa tra ciò che piace e ciò che non piace col risultato di ripetere all’infinito scelte passate aumentando la diffidenza per le novità anche se alcune di queste, in termini di varietà e di specie vegetali, novità in realtà non sono.

La carestia del 1764 e la nascita dell’alimurgia

Nel 1764 una gravissima carestia flagellò tutta l’Italia centromeridionale: dalla Toscana al Regno di Napoli colpendo soprattutto le produzioni cerealicole.

Questo evento, di fronte al quale le autorità rimasero praticamente inerti, mise in crisi, forse più che in altre circostanze simili, il modello agricolo allora dominante in quelle zone che era quello della produzione intensiva dei cereali, incentivata dalla crescita della produzione industriale della pasta, e determinò anche un ampliamento delle aree coltivate a scapito di quelle a pascolo.

A breve distanza da questo evento drammatico vennero date alle stampe le opere di due autori tanto distanti geograficamente quanto straordinariamente simili nell’approccio ai frutti della terra: il fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti, medico e Accademico dei Georgofili, ed il salentino, napoletano d’adozione, Vincenzo Corrado, letterato, filosofo e cuoco di grande prestigio nella ricca Napoli del ‘700, detto dai suoi contemporanei «Il cuoco galante».

Il primo nel 1767 diede alle stampe «Alimurgia o sia modo di render meno gravi le carestie proposto per sollievo de’ poveri»: un trattato di botanica nel quale, riprendendo alcune tradizioni popolari, ridava dignità alle erbe spontanee commestibili affermandone l’utilità per supplire alle periodiche carestie. Il neologismo utilizzato da Targioni Tozzetti dovrebbe essere la contrazione dell’espressione latina «alimenta urgentia» (traducibile in cibo di emergenza) e per quanto non pienamente persuasiva tale interpretazione sembra quella più rispondente allo scopo del testo che era, appunto, quello di fornire indicazioni alimentari in caso di carestie.

Il secondo, nel dare alle stampe nel 1773 «Il cuoco galante», il suo testo di cucina più famoso e che per la sua epoca fu un vero best seller, dedicò un apposito capitolo al cibo Pitagorico che presentò con questa premessa: «Il Vitto Pittagorico consiste in erbe fresche, radiche, fiori, frutta, semi, e tutto ciò, che dalla terra si produce per nostro nutrimento. ’Vien detto Pittagorico, poiché Pittagora, com’è tradizione, di questi prodotti della terra soltanto fece uso». Pochi anni dopo, nel 1781, Corrado fece pubblicare «Del cibo pitagorico ovvero erbaceo», integralmente dedicato alla cucina vegetariana nel quale si proponeva di suggerire «nuovi modi a poter preparare e condire Radici, ed Erbe per mezzo di altri simili vegetabili».

Se Targioni Tozzetti ebbe il merito di recuperare le erbe spontanee alla botanica a fini alimentari, Corrado ne introdusse l’uso nell’alta cucina: a lui si deve, ad esempio, l’uso, sia a fini decorativi che come condimento, dei fiori eduli e lo sdoganamento tra le classi più agiate di erbaggi spontanei come la borragine e la porcellana detta anche porcacchia.

La raccolta delle erbe spontanee tra cultura popolare, medicina ed esoterismo

Malgrado la prevalenza dell’agricoltura, e dell’orticoltura in particolare, la raccolta delle erbe spontanee è un’attività che, in realtà, non è mai completamente cessata.

A mantenerne viva la pratica ed a tramandarne i saperi sono state le classi più umili, che grazie alle erbe spontanee potevano integrare la loro misera dieta, e le virtù salutistiche, vere o presunte, attribuite ad alcune erbe, a metà tra medicina ed esoterismo.

Se dopo la caduta dell’Impero romano furono gli Arabi a raccogliere il testimone della razionalizzazione dell’agricoltura, furono invece i popoli nordici ed i monasteri a tramandare gli antichi saperi delle raccoglitrici di erbe spontanee.

Ai popoli nordici, profondi conoscitori dei boschi nei quali continuarono a celebrare i riti precristiani, si deve l’aura di mistero che, per lunghissimo tempo, ha contornato le erbe spontanee alle quali sono stati attribuiti poteri medicinali o addirittura magici che la letteratura ha trasposto anche nella favolistica.

Nei monasteri, con i cosiddetti «giardini dei semplici», si studiarono ed applicarono le erbe spontanee a fini officinali: ne è un esempio la loro menzione nel poemetto dell’XI secolo attribuito alla Scuola Salernitana: il «Regimen sanitatis salerni». Il loro studio sistematico da parte della scienza ufficiale avverrà però solo con la nascita, a partire dal Granducato di Toscana che non casualmente è l’ambito in cui operò Giovanni Targioni Tozzetti, degli orti botanici.

Dall’800 in poi si verificò un fenomeno curioso: i raccoglitori, infatti, non furono più contadini, ma cittadini che operavano al limite della legalità introducendosi, spesso furtivamente, nelle proprietà pubbliche e private.

A Roma coloro che vi si dedicavano vivevano in gran parte nel Rione Regola ed erano detti «cicoriari»: donne e uomini che fino agli anni ’70 del secolo scorso (in cui se ne contavano ancora più di un centinaio) si potevano ancora trovare in strada o ai margini dei mercati rionali a vendere in piccoli mazzi le erbe mondate (o come si dice a Roma capate).

Ad un’avvenente cicoriara il Belli dedicò il sonetto «Ar bervedé tte vojjo».

«Sor chirico Mazzola, a la grazzietta:
che! nun annamo a ppiazza Montanara
pe ssentí a ddí cquella facciaccia amara:
Tenerell’e cchi vvô la scicurietta?
Sí! ffatteve tirà un po’ la carzetta
pe ccurre da la vostra scicoriara!
Ve vojjo bbene cor pumperumpara!
Cuann’è Nnatale ve ne do una fetta.
Eh vvia, ché ggià sse sa ttutto l’intreccio:
a mmezza vita sce sugate er mèle,
e ppiú ssú ffate er pane casareccio.
Ammannite però cquattro cannéle;
e cquanno vierà er tempo der libbeccio
pijjateje un alloggio a Ssan Micchele».

E cicoriara, per ragioni di fame, era Fedele Rasa che ebbe la sfortuna di mettersi a raccogliere le erbe nei pressi delle Cave ardeatine il 24 marzo 1944 e, non sentendo, probabilmente perché era sorda, l’alt intimatogli dalla sentinella tedesca, ne fu colpita a morte divenendo, di fatto, la 336° vittima dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.

Alimurgia e agricoltura: un incontro possibile

Negli ultimi anni si è registrata una sostanziale inversione di tendenza nel rapporto tra l’agricoltura e le erbe spontanee.

Nuove tecniche si stanno introducendo nelle aziende con maggiore sensibilità ambientale col risultato di ridurre, se non eliminare completamente, l’utilizzo di fertilizzanti e diserbanti creando una diversa agricoltura in cui si realizza un incontro, o meglio una fusione, tra agricoltura e alimurgia.

A fronte di una obiettiva competizione naturale tra le erbe spontanee e le varietà vegetali coltivate, che in taluni casi riduce la produttività delle seconde e comporta maggiori oneri per la gestione e la raccolta, vi sono vantaggi che le erbe spontanee possono apportare al suolo, e quindi anche alla produzione agricola, che sempre più aziende stanno prendendo in considerazione.

Si parla di maggiore permeabilità dei terreni, apporto di minerali e di altre sostanze nutritive che altrimenti occorre integrare artificialmente, contrasto naturale dei parassiti, mitigazione degli effetti del surriscaldamento e dei periodi di siccità, creazione di habitat più favorevoli alle api e quindi all’impollinazione.

È una nuova frontiera dell’agricoltura ed il successo di queste iniziative, che vanno in direzione di un maggiore rispetto per l’ambiente, dipenderà in gran parte dai consumatori.

Questi, infatti, sono chiamati a loro volta ad acquisti più consapevoli che riconoscano il valore dei prodotti di questa nuova agricoltura e siano disposti a pagarne il giusto prezzo, rinunciando ai prodotti non stagionali e scoprendo le virtù delle erbe spontanee commestibili destinate, in questa prospettiva, a diventare, a loro volta prodotti agricoli.

Come reperire le erbe spontanee

Tramontato il tempo dei cicoriari vi sono sostanzialmente due modi per reperire le erbe spontanee: la raccolta personale e l’acquisto presso alcune aziende agricole che ne fanno commercio.

La raccolta personale, per quanto agevolata da testi e guide, presenta, come quella dei funghi, tutta una serie di rischi per la salute visto che non può sottovalutarsi la possibilità di confondersi e finire col raccogliere erbe tossiche apparentemente simili a quelle commestibili. L’ideale sarebbe frequentare un corso di riconoscimento: ve ne sono disponibili in ogni Regione ed in ogni periodo dell’anno.

Tenendo presenti gl’incentivi previsti dalla PAC 2023 per l’inerbimento tra i filari delle specie arboree, tra cui gli olivi, l’esplorazione delle erbe spontanee potrebbe rappresentare anche un’ulteriore incentivo per l’oleoturismo per le cui opportunità si veda «Oleoturismo. Opportunità per imprese e territori» di Dario Stefàno e Fabiola Pulieri.

Per quanto concerne invece l’acquisto, una buona fonte sono le aziende che praticano agricoltura biologica, i venditori di ortofrutta più sensibili a queste tematiche ed i Mercati Contadini con l’accortezza di individuare quelle aziende che effettivamente, per storia e vocazione, le hanno inserite nelle loro pratiche agricole, evitando l’improvvisazione dettata dalla moda del momento che potrebbe farci portare in tavola erbe tossiche o contaminate.

Erbe spontanee in cucina: il connubio con l’olio extravergine d’oliva

Il miglior modo per gustare le erbe spontanee è con un olio extravergine d’oliva di qualità.

Che sia a contrasto o per affinità l’abbinamento delle erbe spontanee con le diverse cultivar regala sempre sensazioni olfattive e gustative sorprendentemente piacevoli.

Seguite un corso di avvicinamento o affidatevi al vostro istinto tenendo presente che in cucina erbe spontanee e olio extravergine d’oliva di qualità si apprezzano al meglio a crudo (quando l’erba lo consente) o comunque con brevi cotture a temperatura non elevata.

Se le utilizzate a crudo procuratevi anche i loro fiori, assicurandovi che siano commestibili, o altri i fiori eduli (ce ne sono moltissimi e coloratissimi) e non fatevi tentare dall’aggiungere sale e aceto: l’olio extravergine d’oliva di qualità è più che sufficiente per regalarvi un piatto che è una delizia per l’olfatto, il gusto e la vista.

Malgrado circolino moltissime ricette di frittate con le erbe spontanee, retaggio di un tempo in cui venivano utilizzate per dare sostanza alla cucina più povera, e le frittelle di erbe spontanee siano effettivamente deliziose, sono i risotti quelli in cui le erbe spontanee esprimono al meglio i loro caratteri.

La cosa migliore è cuocere il riso (senza ricorrere al Carnaroli si può utilizzare un Roma o un Vialone nano) con un brodo vegetale poco caratterizzato ed aggiungere la purea di erbe spontanee, cotte in pochissimo liquido, poco prima della mantecatura, per poi completarla, lontano dal calore, con l’olio extravergine prescelto.

Con le erbe spontanee infatti la mantecatura in olio extravergine dà il meglio di sé: se dovete cuocerle e volete gustarle purezza stufatele in poco liquido e per il tempo strettamente necessario, assicurandovi di preservarne la croccantezza, togliete dal calore, aggiungete la giusta quantità dell’extravergine prescelto e coprite con un coperchio lasciando che questi due doni della Natura si uniscano in un connubio perfetto.

Dopo alcuni istanti togliete il coperchio, godetevi il trionfo dei loro profumi e lasciatevi trasportare.

Foto di Elsemargriet da Pixabay 

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