Cibo e religione

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«Febbraio, febbraietto, freddo corto e maledetto» recita un detto popolare: un detto che certo non avrebbero condiviso i Romani per i quali Febbraio era il mese della purificazione fitto di riti e festività religiose.

Il nome «Febbraio», che indica quello che per noi oggi è il secondo mese dell’anno, ma che per i Romani era l’ultimo, fu scelto da Numa Pompilio e deriva dal verbo «februare» (purificare) che secondo alcune fonti avrebbe la stessa radice di «febbre» legata in particolare, nel mondo latino, alle febbri malariche ed al culto della dea Febris a sua volta mutuata dal culto del dio etrusco Februus, dio della morte e della purificazione.

A Febbraio si celebravano due feste in onore di Giunone: «Iuno Februata» (Giunone Purificata) e «Iuno Sospita» (Giunone Salvatrice), le «Quirinalia», la festa del dio Quirino che nel tempo divenne la divinizzazione di Romolo, i «Lupercalia», inizialmente in onore del dio Fauno nella sua accezione di Luperco, protettore della pastorizia dai lupi e poi come celebrazione dei due gemelli Romolo e Remo allattati dalla lupa capitolina nella grotta detta «Lupercale», ed infine i «Terminalia», la festa in onore del dio Terminus, e poi di Jupiter Terminalis, che celebrava la sacralità dei confini.

Nel suo «Ab Urbe condita» Tito Livio narra di una curiosa forma di convivenza delle due divinità sul Campidoglio dove preesisteva un tempio dedicato al dio Terminus: quando infatti si decise di eliminare dal Campidoglio tutti gli altri templi per fare spazio a quello dedicato a Giove gli àuguri interpretarono come di cattivo auspicio la rimozione di quello di Terminus al quale, quindi, venne riservato uno spazio nel tempio di Giove.

Alle feste ed ai riti arcaici si sono poi sovrapposti quelli cristiani: la Candelora, ora Presentazione di Gesù al Tempio e già festa della Purificazione della Beata Vergine Maria, e San Valentino, la festa degli innamorati: sovrapposizioni ben spiegate da Maria Stelladoro che nel suo «Dai Lupercalia dell’antica Roma alla Febronia di Nisibi, le feste ante litteram della Candelora e di San Valentino».

Febbraio, quindi, nella cultura arcaica, era il mese in cui il cibo rituale e quello della purificazione, vale a dire i due aspetti principali del rapporto tra cibo e religione, si susseguivano e s’intrecciavano forse più che in altri mesi dell’anno.

Emblematico il caso delle focacce salate di farro oggetto sia di offerta votiva a «Iuno Sospita» (Giunone Salvatrice), sia come parte integrante del rito lanuvino in cui le vergini dovevano offrirle ad un serpente recandosi, bendate, in un antro tenebroso.

Un mese, quello di Febbraio, così denso di religiosità arcaica da rappresentare allora l’occasione per raccontare il rapporto, antichissimo, tra cibo e religione.

La condivisione alla base dell’offerta rituale del cibo

Secondo l’interessante ricostruzione storico-antropologica di Monica La Torre («L’arcaico a tavola: l’eco del cibo rituale nell’alimentazione moderna» in Aboutartonline.com) alla base dell’offerta rituale del cibo alla divinità vi sarebbe un anelito di condivisione e quindi di convivialità con la divinità.

Una condivisione che partirebbe, secondo i contributi citati dalla La Torre, dalla sostanziale estraneità della divinità rispetto alla comunità che la venera e che, allo stesso modo con cui si accoglie alla mensa uno straniero o addirittura un nemico, avrebbe innanzitutto un effetto neutralizzante.

Nel sacramento cristiano dell’eucarestia questa condivisione, attraverso il rito e la simbologia dei suoi elementi terreni nella loro mutazione divina (il pane ed il vino che si trasformano, con la transustanziazione, nel corpo e nel sangue del Cristo) si giunge ad una vera e propria «comunione» che è allo stesso tempo terrena e divina.

Un elemento, quello della condivisione, che risulta comune a tutti i sacrifici rituali e che si manifesta nella distribuzione tra gli officianti dei resti di ciò che è stato sacrificato, poiché se la divinità non ha necessità di nutrimento terreno, e ad essa sono diretti i fumi e i profumi del sacrificio, la condivisione deve comunque manifestarsi concretamente almeno nell’ambito sacerdotale, cioè tra coloro che sono scelti per officiare il rito, e da questi ultimi diffondersi alla restante comunità dei fedeli.

La bollitura come rito magico antagonista del sacrificio religioso

Salvi i rari casi in cui la vittima sacrificata veniva dedicata alla divinità mediante seppellimento o dispersione nelle acque, al sacrificio seguiva l’arrostimento delle offerte.

Questo non era solo una manifestazione di virilità che si esprimeva nella gestione del fuoco vivo e che si contrapponeva alla bollitura, attività tipica del focolare e quindi femminea, ma era considerato essenziale perché restituiva alla divinità il cibo offerto nella sua integrità e, nel caso di sacrificio di animali, le ossa sino all’incenerimento.

All’opposto, la bollitura, che altera completamente la sostanza e la consistenza dell’alimento, era considerata ambigua se non apertamente magica e così nell’immaginario collettivo il calderone della strega, nel quale pure vengono sacrificati cibi, ma in funzione magica e non religiosa, è l’opposto della griglia posta sull’altare, la sua negazione.

Nei riti arcaici le parti degli animali sacrificati che non venivano sottoposte ad arrostimento venivano bollite in luoghi diversi da quelli del rito religioso e in questo caso la bollitura, integrandosi anch’essa nel rito religioso, rappresentava da un lato la demarcazione tra il sacrificio religioso ed il puro nutrimento umano, dall’altro una forma di rispetto per l’animale sacrificato le cui carni non dovevano comunque andare sprecate anche perché, secondo il rito, tutto il cibo di cui si nutrono gli umani è, in misura variegata e diversa, dono divino.

La scelta del cibo rituale

La scelta del cibo rituale era strettamente legata alla divinità da celebrare ed al tipo di rito.
Se non mancano esempi di vegetali, come le primizie, l’olio, i cereali, il miele, nella maggior parte dei riti arcaici ad essere sacrificato era un animale: prevalentemente un ovino, un suino o un bovino, mentre più rari, al punto che i rinvenimenti archeologici li misurano in circa il 10%, equini, gatti, piccioni, animali selvatici ecc..

L’uso delle capre in funzione sacrificale era ambiguo, soprattutto nella cultura ebraica e nella sua proiezione in quella cristiana. Se nell’immaginario collettivo la capra rappresenta la vittima sacrificale per eccellenza, con l’espressione entrata nel linguaggio corrente di «capro espiatorio», essa è stata a lungo associata, per il suo aspetto, al maligno e nel «Giudizio delle Nazioni» del Vangelo di Matteo i capri simboleggiano i condannati alla dannazione eterna.

Prima del sacrificio la vittima, scelta accuratamente dai sacerdoti tra quelle prive di difetti, veniva purificata in vari modi ed accompagnata al sacrificio da canti e melodie con funzione tranquillizzante.
Il sacrificio avveniva mediante sgozzamento con un coltello rituale ed in modo da privare completamente la vittima del suo sangue che, come vedremo, sarebbe poi stato utilizzato in funzione purificatoria o medicamentosa.

La prima parte della vittima che veniva offerta alla divinità erano le visceri, ancora pulsanti, nelle quali arcaicamente s’identificava la parte più preziosa e vitale della vittima.

Di grande importanza era anche il carattere afflittivo dell’offerta per l’offerente che doveva comportare la rinuncia ad un bene terreno per ottenere un beneficio divino e tanto maggiore era la portata della rinuncia tanto alta sarebbe stata la probabilità che esso fosse gradito dalla divinità.

Emblematico, sotto questo aspetto, è il sacrificio di Isacco (Genesi, 22, 1-18) in cui è la stessa divinità a pretendere come oggetto del sacrificio il bene più prezioso di Abramo: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» ed Abramo non ha esitazioni nell’obbedire al comandamento che poi verrà annullato, non per clemenza, ma per il riconoscimento della totale obbedienza di Abramo.

La scelta del cibo da sacrificare quindi non era affidata al singolo, ma alla stessa divinità che la manifestava attraverso la classe sacerdotale, la sola in grado d’interpretare dai segni presenti nel cibo stesso se esso fosse o meno degno di essere offerto alla divinità e di eseguire l’offerta secondo precisi canoni affinché la stessa fosse gradita alla divinità e non ne scatenasse l’ira.

Nel rito cristiano è Dio stesso che, attraverso l’eucarestia e la transustanziazione, si offre in sacrificio attraverso la mediazione sacerdotale, mentre si ha il completo rovesciamento del rapporto di condivisione alla base del sacrificio: non sono gli uomini che invocano la divinità a condividere il pasto rituale, ma è Dio stesso che invita alla sua mensa i fedeli.

Il cibo come parte del rito purificatorio

Se nelle religioni più arcaiche lo strumento della purificazione è il sangue dell’animale sacrificato, che una volta entrato in rapporto con la divinità diventa mezzo di salvezza e di guarigione, la rinuncia volontaria al cibo o una parte di esso è anch’essa una forma, probabilmente oggi la più diffusa, di purificazione attraverso il cibo.

Ne rappresentano manifestazioni contemporanee sia il ramadā’n musulmano sia il kippūr ebraico, sia i digiuni rituali induisti mentre nel mondo cristiano la pratica del digiuno, soprattutto nel periodo quaresimale, o dell’astinenza dalle carni in alcuni giorni è andata progressivamente scemando d’importanza: pur essendo ancora parte dei precetti generali della Chiesa, se ne va via via diminuendo la prescrittività a vantaggio di forme più moderne di penitenza come l’astensione dal fumo e dalle bevande alcoliche.

È comunque ancora imposto per almeno un’ora prima del ricevimento dell’ostia consacrata confermandosi in questo sia il ruolo purificatore del digiuno, sia il suo stretto legame con la comunione eucaristica.

Il cibo come dono divino

Nel corso della storia della civiltà umana il cibo, ad ogni latitudine e ad ogni credo, ha sempre avuto, ora forse in misura minore, il ruolo di dono divino e gli esempi sono davvero innumerevoli.

Si va dal riconoscimento della divinità, direttamente o attraverso le forze naturali, come generatrice del cibo, al ringraziamento per il cibo ricevuto passando per alcuni esempi in cui un determinato cibo è donato direttamente dalla divinità: l’olivo da Atena, il cacao da Quetzalcoatl, la manna da Jahvè, i miracoli cristiani della moltiplicazione dei pani e dei pesci e dell’acqua mutata in vino delle nozze di Cana.

Altre forme che esprimono la promanazione divina del cibo, che quindi si lega ai precetti religiosi sono il vegetarianismo religioso, caratteristico di alcune religioni orientali, il riconoscimento della sacralità di alcuni animali, che per il loro rapporto con il divino sono intoccabili, i divieti religiosi di nutrirsi di determinati cibi anche in questo caso quasi sempre animali.

Nella Genesi, prima del peccato originale, non solo tutto il cibo promana direttamente da Dio, ma l’unico nutrimento, di uomini o animali, è esclusivamente vegetale: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde» (Genesi 1,29-30).

Da qui la convinzione che nutrirsi esclusivamente con cibo vegetale, il solo cibo antecedente alla cacciata dal Paradiso, renda per sua natura più vicini al trascendente.

Una teoria, che si lega anche al vegetarianismo di Pitagora, riemersa in tempi relativamente recenti nel «Cibo pitagorico ovvero erbaceo» di Vincenzo Corrado, cuoco, filosofo e letterato che visse ed operò nella Corte napoletana tra la fine del ‘700 e la metà dell’800.

Cibo e aldilà

L’ultimo, ma non per ordine d’importanza, ambito in cui il cibo entra in rapporto con il sacro è quello che coinvolge l’aldilà: la vita dopo la morte ed il culto dei defunti.

È un ambito che la civiltà umana declina prevalentemente al vegetale, conseguenza diretta dell’alternanza delle stagioni nelle quali al riposo invernale sussegue la ripresa primaverile e la terra diventa essa stessa simbolo di vita in contrapposizione al gelo/fame/morte invernale.

Tralasciando il corredo alimentare delle sepolture proprio di moltissime culture o l’uso, tipicamente romano, di versarvi latte e vino in modo da dare nutrimento al defunto, la pianta che più di ogni altra rappresenta questo rapporto è il melograno che nel mito greco sarebbe scaturito dalle stille di sangue di Dioniso e che si ritrova principalmente nel mito di Persefone/Kore che i Romani trasposero in Proserpina.
Nel mito greco la giovane, figlia di Demetra (che i Romani identificheranno in Cerere) dea delle messi, viene rapita da Ade dio degli inferi il quale, per trattenerla a sé, almeno per alcuni mesi dell’anno, le fa mangiare i chicchi del melograno.

Nel mito di Niobe, la regina di Tebe che aveva dato al marito Antiao sei figli maschi e sei figlie femmine, ma aveva osato definirsi superiore alla dea Latona, la vendetta degli dei è tremenda: oltre ad ucciderle tutti i figli Niobe viene trasformata in una roccia e condannata a piangere i suoi figli per l’eternità. Dalle sue lacrime, citate anche nelle Metamorfosi di Ovidio, sgorgherebbe una sorgente alla cui ombra sorge un’unica pianta: un melograno.

Gli Egizi deponevano i frutti di melograno nei sepolcri mentre per gli Ebrei i chicchi del melograno rappresentavano i precetti della Tōrāh.

Un’altra pianta legata al mondo degli inferi è la fava ed ancora oggi in occasione della festa dei defunti si preparano dei dolcetti detti appunto fave dei morti.

L’origine di questa simbologia è legata sia al fiore, candido con una macchia nera, sia allo stelo privo di nodi che consentirebbe una connessione diretta con gli inferi.

Un mito sicuramente rafforzato dal favismo: non un’allergia, ma una malattia ematica ereditaria legata al consumo di fave e che può essere anche letale. Secondo Diogene Laerzio Pitagora aveva una tale avversione per le fave, che proibì anche ai suoi discepoli, dal preferire la morte al mettersi in salvo in un campo di fave.

Infine non è possibile dimenticare la pratica del banchetto funebre in onore del morto.
Una pratica alla quale Aldo Fabrizi ha dedicato il sonetto «Er mortorio».
«Appresso ar mio nun vojo visi affritti
e pe fà ride pure a ‘st’occasione
farò un mortorio co consumazzione
in modo che chi venga n’approfitti.
Pe incenzo vojo odore de soffritti,
‘gni cannela dev’èsse un cannellone,
li nastri, sfoje a l’ovo e le corone
fatte de fiori de cucuzza fritti.
Li cuscini timballi de lasagne,
da offrì ar momento de la sepportura
a tutti quelli che sapranno piagne.
E su la tomba mia tutta la gente
ce leggerà ‘sta sola dicitura:
“Tolto da questo mondo troppo al dente”».

Il rito del cibo nella società secolarizzata

Nella società secolarizzata del terzo millennio, in cui il cibo è diventato in massima parte una commodity, cioè pura merce da ingurgitare, è ancora possibile parlare, al di fuori della cerchia degli osservanti e dei praticanti, di ritualità del cibo e di una qualche forma di approccio religioso al cibo?

Forse la risposta la si può trarre da quella sensibilità, che attraversa la civiltà umana ad ogni latitudine, che si sostanzia nell’accoglienza dello straniero, nel dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati.

Gesti che, indipendentemente da ogni credo, ed anche dall’assenza di credo, riconnettono al carattere sacro del cibo.

Convivialità, condivisione e rispetto del cibo, nella consapevolezza che esso è comunque un dono e non ci appartiene completamente, sono ancora comportamenti che possono manifestare quella spiritualità che distingue il nutrirsi dell’essere umano dall’immettere nell’organismo energie come fossimo delle macchine.

Foto di Nile da Pixabay

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