Tutti vogliono qualcosa, commedia corale briosa

Tutti vogliono qualcosaNell’autunno del 1980, in Texas, Jake Bradford si trasferisce nella casa in cui vivrà i prossimi anni insieme ai nuovi compagni della squadra di baseball universitaria. Nei tre giorni che mancano all’inizio delle lezioni, i ragazzi avranno modo di conoscersi, di consolidare le amicizie, di riscontrare simpatie, antipatie e competizioni, di provare a trovare l’amore (o il sesso) e la propria dimensione di maturazione personale nel difficile passaggio dalla fine dell’adolescenza all’età adulta.

Due anni dopo il grande successo di pubblico e critica di Boywood, il regista-sceneggiatore Richard Linklater torna a occuparsi di giovani e giovinezza in un film che lui stesso definisce il sequel spirituale di “La vita è un sogno” (Dazed and confused) del 1993. Lì descriveva l’ultimo giorno di scuola in un liceo nel 1976, ora racconta invece gli ultimi tre giorni prima dell’inizio del college, spostando in avanti il corso temporale degli eventi al 1980. Per apprezzare ancora meglio questo film, bisogna tenere conto della passione del regista per il trascorrere del tempo, lo scandire di anni, mesi, giorni, ore: in Boywood ha filmato nell’arco di 12 anni la crescita – non solo emotiva – dei suoi personaggi, nella trilogia Before sunset, Before sunrise e Before midnight trascorrono 18 anni reali nella vita sentimentale dei due protagonisti.

Tutti vogliono qualcosa è una commedia corale briosa, colorata e apparentemente superficiale, dove effettivamente non è la trama in sé ad essere la forza trainante: con macchina da presa invisibile, Linklater registra, quasi documenta uno spaccato di vita americano nell’edonismo festaiolo del 1980, a pochi mesi dal primo mandato Reagan. C’è tutto un lavoro minuzioso di ricostruzione dell’epoca, composta di scenografie, abiti, accessori e soprattutto di tanta ottima musica (il titolo originale “Everybody wants some!!” è il titolo di una canzone dei Van Halen), che diventa protagonista assoluta, testimone delle numerose tendenze giovanili del periodo, tra dance, punk, hip hop, rock e perfino musica country, che rappresentano diverse esigenze per diversi stati d’animo. Nostalgico ed affettuosamente autobiografico come “American graffiti” lo era stato per Lucas, non ne condivide però quella malinconia di fondo, non possiede l’eversiva anarchia folle di Animal house di Landis ma nemmeno la greve volgarità di Porky’s, ma solo la cornice. College movie atipico (senza scene sportive, né scolastiche), che non cede agli stereotipi del genere, può quasi essere considerato uno studio antropologico sulle aspettative adolescenziali prima che vengano infrante nell’età della piena maturità: i giovani del film agiscono cercando ognuno il proprio spazio nella società, sia nell’amore, che nel successo con lo sport, lo studio o la futura carriera. Il maschilismo da caserma, la competizione, i diversi metodi di conquista delle ragazze, la volontà di affermazione del singolo contrapposta al bisogno di integrarsi in un gruppo, sono tutti segnali di un’urgenza di vivere, di godersi il tempo fuggevole, di desiderio di libertà di azione che trasuda da ogni inquadratura. La naturalezza di tutto quello che accade nei tre giorni e la credibilità nel rappresentarlo – grazie alla bravura degli attori e a dialoghi perfetti per lo scopo – sono le qualità più pregevoli di questo piccolo film indipendente che, come spesso accade al cinema di Linklater, diventerà sicuramente un classico del genere. Consigliato a chi vuol rivedere non solo un’altra epoca, ma soprattutto un’altra età.

di Fabio Rossi 

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