Tassa piatta e conti in salita

Omini stilizzati che sorreggono la scritta tax.

Se esistesse una divisa o anche solo una giacca a vento del contribuente, meglio se autonomo, vessato, il Vice Presidente del Consiglio Salvini l’avrebbe da tempo indossata a beneficio della sua presenza sui social media e della sua perenne campagna elettorale.

Nel programma elettorale per le politiche del 2018 della destra a reti unificate FI, FdI e, ovviamente, Lega, la Flat Tax, ha costituito una misura bandiera ed ora il Carroccio continua a riproporla ritenendola potenzialmente in grado di spostare, a proprio favore, voti anche alle europee del 26 maggio.

Onestamente, la riduzione della pressione fiscale è un argomento sexy a tutte le latitudini e per tutti coloro che partecipano a qualunque competizione elettorale; ci mancherebbe altro. Il punto è semmai quando e come realizzarla.

Sul “quando”, un buon momento potrebbe essere quello in cui avessimo ridotto la spesa, l’evasione fiscale e, soprattutto, avviato un rigoroso programma di riduzione del deficit e del debito pubblico. In questo momento, purtroppo, la misura proposta appare comunque scarsamente compatibile con l’altissimo debito pubblico italiano.

Rispetto al come realizzarla, andrebbe per prima cosa evitato di sbandierare il falso mito che tale misura si finanzi da sola. La tesi sempre più spesso sostenuta dal Governo verde e giallo, per i più disparati argomenti, è la solita: raggiungere l’obiettivo di una maggiore crescita attraverso una riduzione delle tasse, o “bizzarri” sostegni all’economia (leggi reddito di cittadinanza) che stimolino i consumi scoraggiando al contempo l’evasione e determinando quindi maggiori entrate. Il teorema è però tutt’altro che semplice da dimostrare.

Una riforma fiscale che, a seconda dell’aliquota unica adottata (in misura percentuale e scaglioni ancora da definire), può costare anche fino 15 o 20 miliardi di euro, non può legittimare alcun dubbio in materia di coperture finanziarie che vanno quindi trovate senza lasciare spazio alle mere aspettative.

Un’aliquota fiscale unica può avere un senso, ma poi bisogna fare i conti con le risorse effettivamente disponibili, sia per trovare copertura dei suoi ingenti costi sia per i suoi effetti redistributivi sulla riduzione della progressività fiscale che rischia di avvantaggiare i più ricchi rispetto al ceto medio, il più penalizzato dall’inizio della crisi iniziata nel 2008. Semplificando al massimo, le attuali aliquote colpiscono i redditi più alti in misura superiore al 40%, con l’introduzione dell’aliquota unica (al 15, 20 o anche 25%) il beneficio per i percettori di tali redditi sarebbe davvero molto significativo, in barba ad ogni principio di equità sociale.

Ciò detto, la manovra 2020 che il governo dovrà affrontare in autunno parte già da un costo di 25 miliardi.

Di essi circa 23 per evitare l’aumento dell’Iva e poco meno di due per aumentare gli investimenti dello 0,1%. Tutto ciò al netto della Flat Tax, che, secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio costerebbe un’altra quindicina di miliardi da trovare con “ulteriori misure compensative”. 

Senza l’aumento dell’Iva previsto dalle clausole di salvaguardia, chiarisce l’Upb, l’anno prossimo il deficit arriverebbe al 3,4% (61,7 miliardi di euro), quindi per scendere al 2,1% fissato dal Def (38,4 miliardi) e finanziare il piano di investimenti (1,8 miliardi) serve una correzione di circa 25 miliardi nella prossima manovra. Secondo l’UPB negli anni successivi, la correzione necessaria per disinnescare le clausole di salvaguardia salirebbe a 35,7 miliardi nel 2021 e a 43,07 miliardi nel 2022. Ogni commento appare superfluo.

Conti alla mano la sostenibilità di questa ulteriore promessa elettorale apparirebbe difficile da mantenere, tuttavia alle elezioni europee manca poco più di un mese e non è detto che, almeno per rimpinguare di voti le casse della Lega, la Flat Tax riesca effettivamente ad incrementare ulteriormente il gettito dei consensi.

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