Kenya, la pandemia a Nairobi è seconda alla fame

Molto probabilmente il continente africano non è mai stato così lontano come in questo periodo dai nostri interessi e dai riflettori dei media italiani. InLibertà ha voluto approfittare della testimonianza di Padre Renato Kizito Sesana che, in collegamento da Nairobi con Amani for Africa, ha raccontato gli effetti della pandemia nella giungla urbana del Kenya, offrendo lo spaccato di una realtà che pullula di volti e vite dimenticate e che oggi più del solito restano confinate in numeri e statistiche.

Padre Kizito è un presbitero, missionario comboniano e giornalista italiano, noto soprattutto per il suo lavoro con i bambini di strada a Nairobi. Qui egli ha fondato Koinonia, comunità-onlus partner di Amani, e creato una rete di centri di accoglienza, dove molti minori hanno la fortuna di trovare un rifugio e una famiglia, di rinascere e crescere lontani dalla strada e dai traffici tentacolari delle baraccopoli.

E’ sempre possibile scegliere?

A cinque settimane dal primo contagio nella nazione, il Kenya conta attualmente 345 casi accertati di Covid-19, 14 morti e circa 95 guariti; i dati ufficiali lascerebbero quindi ben sperare. Le autorità keniote hanno imposto un coprifuoco parziale in tutta il territorio, con divieto di uscire dalle 19:00 alle 5:00 del mattino, e posto in isolamento le province di Nairobi, Mombasa, kilifi e Kwale. Disapplicare la legge potrebbe implicare l’uso di manganelli e colpi di arma da fuoco da parte della polizia locale, per i cui eccessi il presidente Uhuru Kenyatta si è pubblicamente scusato con la popolazione. Il governo chiede a chi può di lavorare da casa, permettendo tuttavia a coloro i quali non hanno alternativa di recarsi sul posto di lavoro; i principali mercati all’aperto, maggiormente esposti al contagio, sono stati chiusi, tuttavia gli ambulanti continuano a vendere sul ciglio della strada.

In un paese in cui la sicurezza alimentare rimane uno degli obiettivi principali del governo e la distribuzione di fertilizzanti agli agricoltori uno strumento di politiche pubbliche, pensare a un blocco totale delle attività è pressoché impossibile.

“Un lockdown sarebbe auspicabile – spiega Padre Kizito – tuttavia ciò che ne deriverebbe è un disastro irrecuperabile, con rischio quasi automatico di vere e proprie sommosse. I poveri a Nairobi sono poveri da sempre, la gente era disperata ancor prima che il coronavirus arrivasse e l’economia stremata da fame e siccità; non c’è quasi più nulla da rubacchiare neppure per i personaggi più cronici della strada. Qui centinaia di migliaia di persone vivono esclusivamente di un’economia informale, tirando avanti bancarelle, piccole attività, servizi, spingendo la carretta – letteralmente – per realizzare trasporti per conto di altre persone; moltissimi di loro oggi non lavorano più perché la maggior parte di quelle attività informali ha smesso di funzionare per le misure restrittive”.

“Ho paura di morire di fame oggi”

Più dell’epidemia, a terrificare i kenioti e in generale gli africani è l’effetto che un blocco stringente avrebbe sulla vita delle persone e sulle scarse possibilità di uscirne vivi. Per questo il governo ha fatto il possibile per evitare un fermo totale. “Parliamo di oggi – rimarca il Padre – non di previsioni future. Se la necessità di proteggersi dal virus, da un lato, e il bisogno di garantire il sostentamento della propria famiglia, dall’altro, sono il dilemma di tutte le società colpite dalla pandemia, in una realtà come quella di Nairobi la paura di morire di fame è certamente più intensa e reale”.

Durante il giorno la vita appare quella di sempre, a Nairobi. Il mercato cittadino continua a brulicare di bocche affamate e dei moltissimi abitanti che si mettono in moto allo scoccare delle 5:00 nel tentativo di procurarsi del cibo per la sera. Le persone che bussano alla porta di Padre Kizito aumentano di giorno in giorno; Koinonia sta provvedendo alla distribuzione di cibo facendo rete con altre associazioni e operatori umanitari locali.

Le scuole sono chiuse, i ragazzi che fanno?

Nei centri di Nairobi la richiesta da parte del governo è stata sin da subito quella di chiudere le scuole. Fatta eccezione per le situazioni domestiche più gravi e conclamate, alla chiusura delle scuole ha fatto seguito l’immediato rientro degli alunni nelle proprie case.

Padre Kizito racconta: “anche noi abbiamo dovuto chiudere molte delle nostre attività; abbiamo svuotato le scuole che sarebbero potute facilmente diventare focolaio di contagi poiché più suscettibili per la loro collocazione in città. Alcuni dei nostri centri continuano invece ad essere operativi, ed è una grande fortuna, considerando che sono le stesse autorità a chiederci di poter accogliere altri ragazzi di strada. Sono rimasti con noi numerosi adolescenti la cui condizione familiare è particolarmente difficile, quindi non reintegrabili; la scorsa settimana la polizia ci ha consegnato ben 22 bambini, tra domani e dopodomani ne aspettiamo altri 25.

Li osservavo alcuni giorni fa, osservavo i miei ragazzi, interrogandomi sulla loro salute e sui rischi che potrebbero correre di fronte a questo virus. Mi sono anche detto tuttavia che quei ragazzi hanno superato la malaria, contratto infezioni di vario tipo; sono gli stessi che hanno vissuto in strada 5, 6, alcuni di loro addirittura 10 anni. Se avessero un sistema immunitario debole, sarebbero già morti con tutta probabilità. Sembrerà un ragionamento un po’ superficiale, ma è il frutto di una sensazione e di una speranza”.

Nel frattempo per loro non esiste alcun tipo di didattica. Solo alcune scuole private sono in grado di offrire un’educazione a distanza agli studenti; le scuole pubbliche, quelle frequentate dai ragazzi di Koinonia, non sono organizzate per offrire questo servizio, e qualora lo fossero, la stragrande maggioranza degli alunni non potrebbe usufruirne senza un computer.

Come posso aiutare?

“La necessità più immediata è quella di dare un aiuto alle famiglie che conosciamo e che hanno perso il lavoro. Sarebbe risolutivo farsi carico di uno studente, offrire una borsa di studio, soprattutto per gli studenti delle scuole secondarie e gli universitari; sono loro il nostro bene più prezioso d’altronde”, conclude Padre Kizito. C’è dell’altro che potremmo fare tuttavia, pur non rappresentando un supporto economico: non dimenticatevi del sostegno umano. “I social permettono di mantenere contatti oltreconfine: scrivete parole di incoraggiamento e di vicinanza, servono sempre e non hanno costi”, ci ricorda infine Kizito.

Approfittiamo per ringraziare tutti quegli attori umanitari che scelgono di rimanere laddove il nuovo coronavirus arriva come l’ultima delle tante piaghe, aggiungedosi ai bisogni cronici della società.

Fonte foto: rainews.it

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