Claudio Boccaccini: al teatro Marconi una toccante storia sindacale

Claudio Boccaccini è in scena al teatro Marconi, dal 26 al 28 giugno, con Dieci Cravatte, interpretato dai giovani allievi della sua scuola di recitazione La Stazione. Claudio è sempre una garanzia, per me: già solo quest’anno, tra Pirandello, Beckett ed il suo meraviglioso monologo della memoria, La Foto del Carabiniere, ha reso facile il mio lavoro, perché la penna scorre beatamente quando si scrive di un teatro come il suo. Lo incontro nel foyer per un saluto; nella piacevole area all’aperto antistante questo bel teatro, diretto da Felice Della Corte, ci fermiamo a parlare dell’impegno di questi ragazzi, della forza del testo. Sin da quando avevo ricevuto il messaggio di Claudio che mi preannunciava queste tre serate, avevo  pregustato buon teatro e Dieci Cravatte non ha, di certo, smentito l’aspettativa: anche in questa occasione, Claudio si è rivelato bravo sia nell’adattamento dell’opera, sia nella regia  – ma questo lo sapevamo già -,  sia come insegnante. I suoi allievi sono strepitosi.

Una scena disadorna. Sedie disposte ad anfiteatro ed un gruppo eterogeneo di persone, uomini e donne, o, meglio, ragazzi e ragazze, nove operai e due amministrativi. Stanno tutti aspettando che il loro rappresentante sindacale esca da una riunione fiume con i nuovi proprietari dell’azienda; stanno pregando di non essere licenziati, di poter continuare a portare soldi nelle loro modeste case, nelle loro modeste vite. Quei soldi non sono un’eccedenza con cui comprare futilità, sono il cibo, la casa, l’istruzione dei figli. Dopo ore di attesa, vengono finalmente a conoscenza di quanto sta per accadere: nessuno verrà licenziato; tuttavia, il nuovo direttivo chiede loro di rinunciare a sette minuti della pausa pranzo. Sette minuti! E cosa sono rispetto allo spettro di ritrovarsi senza lavoro? L’entusiasmo generale mette in ombra il vero significato di quella proposta. Tuttavia, Giacomo, il rappresentante sindacale, vuole che si fermino a riflettere su quella condizione apparentemente innocua, insignificante, che cela, in realtà, un atteggiamento volto ad esercitare controllo e potere, a sfruttare. È questo il nocciolo del dramma. Uno ad uno fronteggeranno quel che i piatti della bilancia restituiscono loro: da una parte il lavoro, dall’altra la dignità. Devono decidere. Alcuni cambieranno idea ed il finale lascerà il pubblico senza una risposta o, forse, con la risposta che vorrà darsi, perché, in quest’opera, ben realizzata al culmine di un percorso laboratoriale, il pubblico entra nella storia con i personaggi.

È una sorta di “thriller sindacale”, dove la costruzione della realtà, al pari di un’indagine di polizia, viene portata avanti lentamente ma con progressiva chiarezza; dove l’attenzione alla questione sociale, il licenziamento, la crisi economica, la paura del futuro anche da parte di persone giovani, viene spettacolarizzata e, per questo, diviene ancor più incisiva. È teatro che insegna e fa pensare. Lo leggi nel volto dei protagonisti, che varcano, tutti, il confine con il personaggio, portandolo con sé ovunque.

Rispetto al dramma 7 Minuti di  Stefano Massini, messo in scena da Alessandro Gassman con Ottavia Piccolo nel ruolo della rappresentante sindacale e riproposto al cinema da Michele Placido lo scorso anno, dramma che, prendendo spunto dall’occupazione di un’azienda tessile di Yssigeaux, in Francia, avvenuta nel 2012, vede protagoniste solo donne, Boccaccini mette in scena un gruppo composto da uomini e donne, amplificando le problematiche personali, arricchendo il microcosmo dei sentimenti in gioco, coinvolgendo il pubblico su più piani e, soprattutto, spostando l’attenzione del fruitore del messaggio artistico dall’affermazione femminile, la lotta di genere, di cui l’altro copione è intriso, al dramma del lavoro, la paura del domani, lo stato di precarietà diffusa, soprattutto tra i giovani.

Tutti gli attori sono protagonisti assoluti: undici persone nell’intrecciarsi delle loro paure, dei loro desideri. Tuttavia c’è anche un dodicesimo protagonista. Il suo nome è dialogo, che costruisce e distrugge, cambia, isola, mette in gioco, plasma i personaggi, uno ad uno. Una tecnica ben sperimentata, soprattutto in quelle opere che narrano tasselli di verità, che denunciano, evidenziano accadimenti reali. Pensiamo a La Parola ai Giurati di Reginald Rose, il quale ebbe l’idea per il suo dramma dopo aver fatto parte di una giuria popolare in un caso di omicidio. Scritto nel 1954 per la televisione e rappresentato più volte a teatro, divenne un film di successo nel 1957, con Henry Fonda diretto da Sidney Lumet, e tornò al successo quarant’anni dopo, con un magnifico Jack Lemmon diretto da William Friedkin. Anche in questo caso una sola persona, con le sue argomentazioni, la sua logica, il suo sentimento porta un gruppo di persone d’altra opinione a spaccarsi, a cambiare punto di vista, a dubitare, a ragionare. Identica la tensione dialettica tra i due drammi; identico l’approfondimento delle personalità dei protagonisti, delle loro vite, pur sviscerando un singolo, ben determinato argomento.

Bravissimi gli allievi di Boccaccini, che palesano un’ottima padronanza della scena, una grinta non indifferente, una non facile predisposizione alla naturalezza che, in questo particolare contesto, è assolutamente fondamentale. È un tipico “dramma della strada”, dove la verità traspare da ogni particolare. Gli abiti semplici, che, in modo evidente, mostrano la differenza con le cravatte, o, meglio, con gli uomini che le indossano. È perfetta la scelta di Boccaccini di sottolineare, anche nel titolo, il messaggio della pièce, racchiudendo in quel particolare accessorio il segno distintivo tra padrone ed operaio, tra ricco e povero, tra potere e sottomissione.

La verità, poi, emerge  da ogni movenza, gesti semplici chiamati a rivelare, nel profondo, colui che li compie, persone prima che personaggi; dall’uso di inflessioni dialettali; dalla tempistica, a volte confusa, delle battute, accavallate l’una sull’altra proprio come accadrebbe in un gruppo di persone infervorate, impaurite, impegnate; dal muoversi attorno alle sedie, che sono quasi dei totem, muti spettatori di una danza di corpi seduti, in piedi, appoggiati allo schienale, con la testa tra le braccia, con la testa alta in segno di sfida; una danza di corpi che sarebbe piaciuta a Caravaggio.

Quando si apre il sipario parlano al pubblico per qualche istante. Uno dopo l’altro, nei panni del proprio personaggio, si raccontano, si presentano. Claudio mi confida che l’idea è nata dopo aver chiesto ai suoi allievi qualche riga sul proprio personaggio: tanto approfonditi i tratti da loro descritti di ciascuna personalità che non ha resisto a mettere in scena quelle parole in una sorta di prologo che mi riporta alla mente le accurate descrizioni pirandelliane.

Sono davvero bravi. Sanno caratterizzare: c’è la donna calma, un po’ malinconica, che capisce il timore degli altri, ma finge che non si possa mai verificare, c’è il timoroso, il generoso preda di facili attacchi d’ira, il riflessivo, la giovane pluri-licenziata, la disincantata, il calmo apparente …

Questo dramma è il trade union tra il “teatro civile”, che porta in scena uno spaccato di vita attraverso l’azione di professionisti dello spettacolo, ed il “teatro sociale”, dove il realismo si impadronisce tanto del dramma da volerlo realizzato, quasi con piglio pasoliniano, da gente comune o da attori che catturano battute ed atteggiamenti dalla gente comune. C’è stata più di una pièce, di recente, inquadrabile in un contesto simile” e proprio sullo stesso scottante tema del lavoro. Mi riferisco a Buon Lavoro di Elisabetta Vergani e Maurizio Schmidt, i quali, in collaborazione con il teatro Piccolo di Milano, hanno messo in scena un’opera sul mondo del lavoro, partendo da interviste fatte a tanti diversi lavoratori italiani ed elaborate in forma teatrale. Il titolo vuole essere un augurio, una speranza, un obiettivo da raggiungere, sempre più difficile in un Paese come il nostro. Altro pregevole esempio di “teatro sociale” è La Neve Azzurra di Angela Caterina, tratto da Il Racconto Giusto di Anselmo Botte, che narra il dramma degli operai dell’Isochimica di Avellino.

Che altro dire se non “bravi”? Regista ed attori di Dieci Cravatte meritano pienamente gli applausi che hanno ricevuto, scroscianti, al termine della rappresentazione.  È in scena ancora stasera. Vale davvero la pena di vederlo.

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