Vespasiano Gonzaga. Un uomo e la Morte

Vespasiano Gonzaga, celebrato signore di Sabbioneta, fu sospettato dell’omicidio delle sue due mogli e fu responsabile della morte del figlio. Luci ed ombre del Cinquecento.

Un amore incontrollato

Nota come l’Atene dei Gonzaga, Sabbioneta è una piccola, incantevole città a forma di stella situata tra Mantova e Parma. In realtà, non è creatura dell’intera famiglia Gonzaga, poiché uno solo fu il Gonzaga che la fece risplendere, gemma incontrastata del Cinquecento italiano: Vespasiano, figlio di Rodomonte e di Isabella Colonna.

Vespasiano ha solo un anno quando perde il padre, ucciso da un’archibugiata sparata dall’allora abate di Farfa per questioni d’interesse. Ad allevarlo, più che la madre, la quale si risposa presto con Filippo di Lannoy, è la zia Giulia Gonzaga, che lo cresce nel rispetto delle tradizioni del casato e delle gesta belliche del padre.

Nel 1549, quando Vespasiano ha diciotto anni, zia Giulia gli cerca moglie tra le nobildonne in età da marito, in modo da assicurare la successione del casato e, nello stesso tempo, di rafforzare con altri possedimenti gli averi del nipote, invero scarsi. L’amore, però, arriva inaspettato, spazzando via qualunque lavorio di palazzo. Nella dimora milanese di don Ferrante Gonzaga, Vespasiano incontra la splendida Diana di Cardona, marchesa di Giuliana, contessa di Chiusa, baronessa di Borgio. Ha i tratti fieri ed eleganti tipici di chi proviene dalla sua bella terra di Sicilia. Vespasiano non è men bello. Alessandro Lisca, cavaliere veronese al suo servizio, lo descrive alto, magro, con le spalle larghe, i capelli neri e gli occhi penetranti, la barba acconciata alla moda dell’epoca; un uomo di grande fascino e carisma. Di sicuro non passa inosservato.

Diana di Cardona è promessa sposa al figlio di don Ferrante, ma un litigio furibondo tra la bella dama ed il padre del suo futuro sposo, manda a monte le nozze. Sulle cause del litigo neppure i cronisti si pronunziano, ma non è peregrina l’idea che la promessa matrimoniale sia stata infranta a causa di Vespasiano. Forse, il loro colpo di fulmine sbaraglia ogni altro progetto.

Ha da pochi giorni visto il principio l’anno 1550 quando Vespasiano e Diana convolano a giuste nozze, con il beneplacito di Ferrante, sebbene pronunziato a mezza bocca. L’usanza di chiedere il preventivo consenso dell’imperatore, invece, non viene rispettata, poiché Carlo V viene avvisato solo tre mesi dopo, quando Diana è già incinta. E’, dunque, un consenso meramente formale, il suo, che, tuttavia, non manca di giungere.

La coppia si stabilisce a Sabbioneta, dove Vespasiano si sta costruendo un piccolo impero, ponendo solide basi per il governo grazie ad un selezionato gruppo di funzionari, consiglieri ed artisti, i quali, con opere brillanti, sottolineano il suo rango e la sua magnificenza. Il Tasso di lui scrive: “E’ signore di bello e ricco stato ma d’animo, di valore, di prudenza e d’intelletto superiore alla propria fortuna e degno d’essere paragonato co’ maggiori e più gloriosi principi de’ secoli passati”.

Un periodo infelice, però, attende i novelli sposi. Vespasiano si ammala gravemente e Diana perde il figlio che porta in grembo. Poco dopo iniziano una serie di più o meno lunghe separazioni che allontaneranno i due coniugi anche psicologicamente.

Assenze galeotte

Vespasiano, infatti, segue l’Infante Filippo in Spagna nei suoi viaggi in Italia e nelle Fiandre. Diviene un eccezionale combattente e partecipa a battaglie epiche, tra cui quelle di Anagni e Vicovaro, che gli consentono di vendicarsi per la morte del padre.

E’ ovvio che la sua indole di combattente mal si accorda con la temperanza e con la non violenza, ma, più che lucidamente crudele, come è pur stato dipinto, egli è soggetto ad attacchi d’ira.  E’ questo l’altro aspetto della sua esistenza, che, a detta di molti, tinge di delitti e vendette la sua vita privata.

Nel 1559 torna finalmente a casa dopo un’assenza di più di un anno. Ad attenderlo, però, c’è una moglie poco amorevole che le malelingue del paese vogliono incinta. Le voci, provenienti sia dal volgo, sia da quei nobili che si sono sempre palesati suoi amici e che, invece, mossi dall’invidia, sguazzano nello scandalo, non risparmiano di sussurrare anche il nome del padre del bambino, tal Giovanni Annibale Ranieri, rampollo d’un nobile e ricco casato. Il Sangiorgi, biografo di Vespasiano, ben descrive l’ambiente ostile in cui il Gonzaga torna, accolto da persone malignamente intente “a gittar sospetti sulla gravidanza scopertasi della principessa, nel 14° mese dacché era assente il marito; a caricar di ridicolo il fallo, a satireggiarlo a bandita in cento guise”.

Inizialmente Vespasiano finge di non sentire il brusìo di malignità. Festeggia il proprio ritorno con banchetti degni di un sovrano e si mostra in pubblico con la sua sposa. Forse, una parte di lui è ancora restia a credere che Diana possa essersi concessa ad un altro uomo, possa aver gettato via la loro unione, nata dall’amore reciproco e non da un contratto familiare; o, forse, già premedita la vendetta ma non vuole che alcuno possa ricollegarla a lui.

Si dice che Vespasiano abbia abbracciato un suo fido sgherro, Pierantonio Messirotto, e, con le lacrime agli occhi, gli abbia sussurrato un orrendo comando, forse l’omicidio della moglie e dell’amante. Tale, quanto meno, è la versione che viene offerta alla storia da Giambattista Messirotto, figlio di Pierantonio, il quale scriverà le confidenze che afferma essergli state fatte dal padre e verrà tenuto in considerazione di fonte attendibile.

Di fatto, la bella Diana rende ben presto l’anima al Signore. Vespasiano scrive la notizia alla zia Giulia con parole di circostanza, senza tradire il minimo dispiacere: “E’ piaciuto a Dio di chiamare a sé mia moglie all’improvviso, di apoplessia”.

Quasi contemporaneamente sparisce anche quel Giovanni Annibale Ranieri, che si vociferava essere il padre del bambino di Diana. Lo cercano la moglie ed il padre. Inutilmente. Prove del delitto non ve ne sono, ma il sospetto pesa come un macigno.

Il racconto del figlio di Messirotto è particolarmente disumano. Il Ranieri viene sgozzato in una stanza del palazzo, mentre attende d’essere ricevuto da Vespasiano. Quindi, a Diana viene offerta una coppa di veleno. Lei non acconsente a bere. Urla, si dispera. Prega il suo aguzzino di attendere il parto, in modo da lasciare indenne il figlio, creatura innocente. Nulla da fare. Per tre giorni, rifiutandosi di bere dal calice mortale, resta chiusa nella stanza con il cadavere del suo amante. Tuttavia, il degrado di quel corpo esanime e l’afflizione morale e fisica in cui versa Diana, immersa nei miasmi ammorbanti della putrescenza, la fanno capitolare. Beve. Muore. Il corpo di Ranieri viene occultato sotto il pavimento e mai restituito né alla famiglia, né ad una benedizione cristiana. A Diana, invece, come la storia insegna, viene riservato il funerale di Stato, attribuendo la sua prematura scomparsa ad un evento naturale.

Delitto o cronaca romanzata?

La vicenda, così come riportata dal Messirotto, è particolarmente truce, ferina, crudele. Non sembra in linea con il carattere di Vespasiano, soggetto ad ira e violenza, sì, ma non a premeditazione, a crudeltà, a compiacimento nel dolore altrui. Probabilmente, nel racconto, c’è un po’ di verità e molta fantasia.

Vespasiano, da quel momento, si chiude in se stesso, dedicandosi con frenesia ad abbellire la sua Sabbioneta ed a fare opere di carità.

Egli è consapevole non solo di quel che gli altri dicono di lui, ma delle sue qualità, del suo buon rapporto con le Muse, che lo ispirano in ogni forma d’arte e di attività di ingegno, dall’astronomia alla poesia, dall’architettura civile alle fortificazioni militari, che lo vedono impegnato non solo nella sua terra, ma anche in Ispagna ed in Marocco. Un umanista a tutto tondo che, tuttavia, non tralascia mai il combattimento, corpo a corpo o con la spada, fosse esso solo un gioco da esibire in torneo od un mezzo per vincere sanguinose battaglie.

La seconda moglie

Ormai trentatreenne, all’alba dell’età matura, Vespasiano riprende moglie. Il suo nome è Anna di Segorbia. Proviene dalla Spagna e, lungi dall’infatuarsi di Vespasiano, come accaduto a Diana, diviene triste merce d’un contratto in cui ha ruolo lo stesso Filippo II, cugino della bella aragonese, re incontrastato del cattolicesimo europeo.

A settembre 1564, Anna giunge a Sabbioneta. La sposa è già incinta e partorirà due gemelle, di cui sopravvivrà solo Isabella. Undici mesi dopo partorisce il tanto atteso figlio maschio, l’erede del ducato, Luigi Gonzaga.

La felicità familiare, però, viene presto spezzata da un fato arcigno. Anna si ammala di un male oscuro, per dirla con Giuseppe Berto, e si rifugia, in abiti da penitente, nella dimora di Rivarolo, gemendo per le proprie colpe. Quali siano queste colpe, non è dato sapere.

Rifiuta contatti sia con Vespasiano, sia con il figlio maschio; raramente riceve la piccola Isabella. Il suo malessere, i suoi sensi di colpa sono, forse, legati alla nascita del figlio? Si tratta di quella che oggi chiameremmo depressione post partum, o c’è dell’altro? Una colpa legata a quella gravidanza, qualcosa di inconfessabile?

Due anni e mezzo dopo, l’11 luglio 1567, Anna esala l’ultimo respiro. Vespasiano ne esce distrutto, tanto che nei tre mesi successivi si chiude nel convento dei Serviti, colto da fervore mistico.

Le voci, ancora quelle voci sottili ed affilate del volgo e dei falsi amici che circondano il Gonzaga, tornano a parlare di veleno, ma non c’è prova alcuna che possa sostenerlo. L’unico appiglio, per chi voglia credere a queste voci, risiede in una morte sospetta di qualche anno dopo. A finire sotto la lama di un coltello è Raniero Ranieri, figlio di quel Giovanni che si vuole sgozzato perché amante di Diana. Dalle vanterie poco signorili cui il Ranieri è aduso si potrebbe dedurre che sia lui, e non Vespasiano, il padre del piccolo Luigi; e ciò collimerebbe con la crisi familiare dei Gonzaga, con i sensi di colpa di Anna.

Raniero si è suicidato, questa è la versione ufficiale; quella ufficiosa, invece, lo vede cadere sotto il fendente di un assassino mandato da due suoi acerrimi nemici, Ercole Visconti, soprintendente alle fabbriche, e Federico Zanichelli, governatore. Che costoro abbiano agito per conto di Vespasiano, però, è poco credibile. Non è nelle sue corde una vendetta così a lungo meditata. Inoltre, dopo il ritiro presso i Serviti, Vespasiano va via da Sabbioneta. Dapprima combatte la guerra dei Gonzaga nel Monferrato, poi, lasciato il piccolo Luigi a Sabbioneta ed Isabella a Napoli, dalla nonna, parte per la Spagna dove, come ingegnere militare e viceré di Navarra, rimane una decina d’anni. Nel frattempo si fa raggiungere dal figlio e con lui rientra a Sabbioneta nel 1578. Isabella è in grande agitazione: non vede l’ora di riabbracciare il padre. Vespasiano, tuttavia, pronunzia una frase che passa ai posteri come segno della sua anaffettività: “Lasciate ch’io visiti innanzi ad ogni cosa la mia primogenita Sabbioneta, tutta fattura mia”. Il sottolineare che solo Sabbioneta sia tutta fattura sua restituisce vigore a vecchie malignità. Tuttavia, considerato che le sue parole vengono riportate dai cronisti dell’epoca dopo lunghi percorsi di chiacchiere più o meno credibili, c’è da riflettere sulla loro attendibilità.

L’anima lacera d’un uomo

Il rientro di Vespasiano a Sabbioneta è caratterizzato da un altro dramma, però. Il peggiore in assoluto. E, questa volta, la sua colpa è evidente come il proverbiale elefante nel corridoio. Luigi ha quindici anni. Lo animano il temperamento del padre ed il senso di ribellione adolescenziale. Gira spesso per Sabbioneta con un gruppo di giovinastri. Un giorno incontra il padre, ma non risponde al suo saluto. Con i suoi amici continua a cavalcare senza girarsi. Vespasiano viene colto da uno dei suoi attacchi di rabbia e gli urla contro, intimandogli di smontare da cavallo. Il ragazzo obbedisce, ma con la calma e l’arroganza che, solitamente, fa infuriare ancora di più chi di furia è preda, gli fa notare che non è quello né il momento, né il luogo per rimproverarlo. Una lezione di saggezza che colma il vaso. Vespasiano gli si avventa contro e gli sferra un calcio al ventre che fa stramazzare al suolo il ragazzo.

Luigi non si rialza. Si nota subito, dal sangue che gli esce dalla bocca, che il colpo ha fatto danni seri. Vespasiano è in preda alla disperazione. Convoca i migliori medici, appronta ogni cura. E’ tutto inutile. Dopo tre giorni di sofferenze indicibili, Luigi muore.

Vespasiano è annientato dal pentimento e dal dolore. Si ammala gravemente: non mangia più e soffre di lancinanti emicranie. Dio, però, non accetta ancora la sua anima. Guarisce, costretto a vivere con quello strappo profondo nel cuore, che né i tanti scudi offerti in beneficenza, né la costruzione dell’ospedale e della chiesa dell’Immacolata, suo mausoleo, possono lenire.

Verso la fine della vita e del tormento

Gli anni passano e Vespasiano si rende conto che non ha un erede maschio. A cinquant’anni, dunque, si sposa per la terza volta. Lei è Margherita Gonzaga di Guastalla. Nonostante abbia scelto una moglie molto più giovane di lui nella speranza che gli dia il figlio tanto desiderato, la coppia vive un’unione sterile. L’unica speranza è Isabella. Combina il suo matrimonio con Luigi Carafa, principe di Stigliano, e diventa nonno di un maschio. Il suo erede.

Sabbioneta vede finalmente il compimento dei lavori, durati decenni e portati avanti da Vespasiano con tenacia  ed abnegazione. Non è un eufemismo dire che Vespasiano ha tirato su Sabbioneta con le sue mani e con i suoi soldi e non ce ne sono voluti pochi. Suoi i disegni architettonici, sua la direzione dei lavori. Suo il potere, ovviamente e, sotto il suo potere assoluto, il fiorire della cultura e delle arti, oltre che del commercio. Egli fa dono a Sabbioneta di una biblioteca che nulla ha da invidiare a quelle universitarie; di un monte dei pegni ed una banca; di un ospedale; persino di una casa editrice internazionale gestita da due israeliti, cosa che, con l’imperversare dell’Inquisizione, denota la sua potenza anche politica. Batte moneta. Le scuole sono pubbliche, gratuite e particolarmente curate nella struttura e nella scelta del corpo docente. Inoltre, affascinato dalle architetture del Palladio, costruisce un magnifico teatro, opera dell’architetto Vincenzo Scamozzi. Affò, storico mantovano settecentesco, lo descrive come “il primo teatro che in Lombardia si vedesse all’uso antico edificato, cui venne in seguito l’altro incomparabilmente più magnifico di Parma, aperto l’anno 1619 dal duca Ranuccio Farnese”. A Sabbioneta Vespasiano fa anche costruire, per sé e la propria famiglia, un palazzo d’inverno ed uno d’estate, riservandosi una chiesa per il culto familiare.

Vespasiano, nel frattempo, riprende la sua intensa vita diplomatica. Riceve il Toson d’Oro e ricopre ruoli militari di rilievo per Venezia e per l’Impero.

Nel 1588 partecipa alla Dieta di Praga, quale delegato del re di Spagna, ma due anni dopo inizia il declino fisico e politico. Ormai debilitato e stanco, non riesce più ad uscire dal palazzo. Deve sentirsi un gigante senza gambe, soprattutto perché non riesce a reagire agli sfrontati attacchi del parente mantovano Vincenzo Gonzaga, il quale, nel tentativo di metter mano sul quel fiorente ducato, gli scatena contro i Gonzaga di San Marino.

Il 26 febbraio 1591, dopo lo sprazzo di lucidità che spesso coglie i moribondi, Vespasiano chiude per sempre gli occhi alla vita e viene sepolto nella chiesa dell’Incoronata. Dal suo testamento risulta erede universale la figlia e molti sono i lasciti generosi per amici e servitori.

A Sabbioneta, la sua Sabbioneta, ancora oggi si può leggere il suo nome su porte, chiese e palazzi: Vespasianus d. G. dux Sablonetae. Il ricordo imperituro è il segreto dell’eternità. E, forse, Vespasiano Gonzaga, a modo suo, l’ha conquistata. Di lui resta l’immagine contraddittoria di un uomo affascinante e colto, forte e coraggioso, generoso, ma anche violento. Un uomo del Cinquecento.

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