Al teatro Vascello di Roma, solo per due giorni purtroppo, è andato in scena “Lavia dice Giacomo Leopardi”.
Un titolo che lascia presagire alta poesia; una scelta verbale, quel “dice”, che racchiude recitazione, ma anche interpretazione, empatia poetica, magma di rime, di assonanze, di allitterazioni, di suoni, di parole. Parole come siepi, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo escludono. Lo disvela Lavia, quell’orizzonte che si stende tra la limpidezza espressiva ed il tormento interiore di Leopardi: egli accompagna il pubblico tra i segreti racchiusi nelle parole non scritte, in quello che, seguendo la moda del momento, potremmo definire il “codice Leopardi”. Nel farlo tocca Pirandello, Shakespeare, Sartre. Lavia trasmette al pubblico pensieri e sentimenti e lo fa tanto nel profondo da renderli parte di tutti, fiamma ardente in ogni animo. “Il mondo brucia dentro di noi, non fuori di noi” scriveva Hermann Broch.
In palcoscenico, una sedia. Una sedia e Lavia, che riempie lo spazio e l’aria, come la cupola di S. Pietro quando si imbocca via Piccolomini. I romani mi potranno capire: vista dall’inizio della strada, la cupola giganteggia all’orizzonte, sembra lì, tangibile; poi, procedendo verso di essa, si allontana. Ebbene, come la cupola, Lavia è lì; è immenso e sembra vicinissimo. Invece è lontano, inarrivabile nella sua arte.
Il suo lungo monologo è un cerchio magico: finisce dove inizia. Nella struttura dello spettacolo, Alfa ed Omega coincidono.
Sia all’inizio dello spettacolo, sia alla fine Lavia dialoga con il pubblico, chiamandolo a recitare con lui alcuni versi. Con quel suo interagire, che rientra nella migliore tradizione del fare teatro, trasforma la voce del pubblico in un coro emozionato di giovani liceali in festa. Attori per un istante, partecipi di quel vortice di lirismo che Lavia, Maestro, anima in palcoscenico.
Sia all’inizio dello spettacolo, sia alla fine, Lavia dà vita ai versi di Leopardi attraverso una raffinata lettura critica che, senza nulla togliere all’elegia, dipinge un quadro. Il quadro, poi, si fa scena e la scena movimento: mani e piedi corredano la voce, il leggere tra le righe.
E’ Il Sabato del Villaggio ad aprire lo spettacolo, diventando una complessa scenografia immaginaria.
Le mani ricamano l’aria seguendo la metrica: da un lato il fascio d’erba della donzelletta, dall’altro le rose e le viole; una mano sfiora il crine, l’altra il cuore. Poi si spostano, in un volo immaginario: lavorano la lana con la vecchierella e le sue vicine. Le mani di Lavia descrivono quel vicendevole, lento aiutarsi delle tre donne impegnate nella filatura: la prima, forse, regge la matassa, l’altra la dipana, la terza, chissà, taglia il filo. Facile pensare alle Moire: Cloto, che fila lo stame della vita, Lachesi che lo avvolge sul fuso ed Atropo che, con le sue forbici affilate, infine lo recide.
E’seduto, Lavia, eppure, attorno a sé, genera un vortice di movimento. I piedi, anch’essi recitano: punta, tacco, punta e vediamo la vecchierella da giovane, mentre danza; poco dopo, il rumore più secco di quello stesso piede battuto in terra, più volte, a simulare il martello del legnaiuolo che, di tutta lena, s’affanna a terminare un lavoro. Ed ecco che la scena recitata si arricchisce del non detto: i cosa, i quando sono lì, invisibili e pur visibili, mentre Lavia ci guida a notarli.
Alla fine del cerchio c’è L’Infinito, con la sua storia di spazio e di tempo, di tensione eroica e perfezione lirica in quel fronteggiarsi dell’uomo con l’ineluttabile. Soffrire, sentire, amare ciò che non può essere amato; immaginare l’infinito oltre la siepe, il suo silenzio inconoscibile, turbato dal lieve fruscio delle foglie. Le osservazioni di Lavia si mischiano alla realtà del borgo, di quella Recanati di oggi, che tutti conosciamo, turisti romantici alla ricerca di una siepe che non c’è più, e della Recanati di allora, chiusa e riottosamente legata alle sue tradizioni, che trova in Monaldo, forse, immagine e specchio. Il Monaldo fervente illuminista, che cresce il giovane Giacomo nel gusto del sapere, mettendogli a disposizione la sua biblioteca, che è, forse, la prima siepe tra Leopardi ed il resto del mondo. Ma anche il Monaldo anaffettivo, bigotto, arcigno, privo di qualsivoglia slancio sentimentale sia nei confronti del figlio che della moglie, il primo neppure menzionato nella sua autobiografia e la seconda ivi descritta come un “ottimo investimento”, una donna “forte, intenta solo ai doveri ed alle cure del suo stato, [che] non ha mai conosciuto altra volontà, piacere od interessi se non quelli della famiglia e di Dio”. Sarebbe ingenuo pensare che la rigidità paterna non sia entrata in Giacomo, uscendo nei suoi versi dolenti. Moravia, nella presentazione all’autobiografia di Monaldo, scrive: “Sono convinto che non si possano comprendere completamente la figura e l’opera di Giacomo Leopardi se non si conoscono la figura e l’opera di suo padre Monaldo. Naturalmente la poesia di Leopardi non si spiega e non si valuta con il fatto che era figlio dell’autore dei Dialoghetti. La poesia, proprio perché è poesia, sfugge a qualsiasi determinazione. Ma il rapporto tra Giacomo e Monaldo che poi vuol dire rapporto tra Giacomo e la famiglia, Giacomo e Recanati, Giacomo e la società italiana del tempo, mi sembra importantissimo per spiegare perché Leopardi fu un certo genere di poeta e non un altro, cioè espresse nella sua poesia una certa visione del mondo e non un’altra”. Niente di men vero.
Il Sabato del Villaggio e l’Infinito. Inizio e fine dello spettacolo, come detto. Apertura e chiusura del cerchio. Al centro di quella circonferenza c’è il mondo delle liriche leopardiane, l’armonia dei ricordi, la crisi esistenziale dell’uomo. Ci sono Il Passero Solitario, La Sera del Dì di Festa, A Silvia, il Canto Notturno di un Pastore Errante dell’Asia, le Ricordanze, l’affanno della memoria, la falsa eternità dell’anima … Il tutto in un fluire morbido ed intenso di parole, che ci suggerisce l’esistenza di un unico pensiero leopardiano, di un identico sentimento. Gli uomini sono tutti lì, in quell’essere ignari del Fato ed, al contempo, avvolti dal finire della vita. Ogni giorno si muore un po’, dicono i filosofi. Leopardi lo chiama “soggiorno disumano intra gli affanni”. Eppure, c’è qualcosa di consolatorio nel suo pessimismo. Arriva dai suoi versi, soprattutto se recitati da Lavia, che li fa vivere nel cuore di chi l’ascolta. In Leopardi c’è la consapevolezza dell’infinito; un infinito in cui è dolce naufragare. E’ una cosa che va al di là di ogni credo, di ogni fede, o dell’assenza di essa; al di là del pessimismo e della disperazione. Semplicemente: chi possiede il senso dell’infinito non è mai solo.
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