Pasqua con chi vuoi

«Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi» recita un adagio popolare. Nella sua declinazione contemporanea, in cui i codici di comportamento sociali si sono affievoliti a favore di uno spiccato individualismo, il detto ha assunto il significato di liberazione della festività pasquale dalla necessità della sua celebrazione in ambito familiare.

Pasqua e «Pasquetta», il lunedì successivo alla domenica di Pasqua, sono diventate allora per molti occasione per un breve viaggio o per intrattenersi con persone al di fuori della cerchia familiare.

Il significato originario del detto, tuttavia, era diverso e legato strettamente al significato religioso della Pasqua.

Se il Natale, infatti, celebra la nascita di Gesù e, indirettamente, la Sacra Famiglia che pure nel calendario cristiano ha una festività dedicata, nella complessità del triduo pasquale, che inizia il Giovedì Santo con la celebrazione dell’Ultima Cena coincidente con la celebrazione di Gesù della Pesach, la Pasqua ebraica, la famiglia di Gesù si è estesa ai suoi discepoli che sono tali non per vincolo familiare, ma per scelta.

Ecco allora che la Pasqua, che per i cristiani coincide con la rivelazione della resurrezione di Gesù annunciata alle donne giunte la domenica al Santo Sepolcro per completare il rito funebre, non ubbidisce ad un rigido canone familiare imposto dai legami di sangue, ma è frutto di una scelta consapevole di celebrazione condivisa con coloro ai quali si è legati affettivamente, il che ovviamente non esclude la propria famiglia di sangue, ma la amplia.

Questo significato è particolarmente sentito nel Centro e nel Sud d’Italia in cui la colazione ed il pranzo di Pasqua sono frutto di un intreccio tra la Pasqua ebraica, i riti pagani legati alla primavera e la cultura magnogreca, mentre non mancano influssi arabi.

I piatti tradizionali della Pasqua cristiana e l’influsso del Seder della Pesach ebraica

Anche se non si hanno certezze è possibile ipotizzare come si svolse e cosa fu consumato durante l’Ultima Cena, che la Chiesa celebra il Giovedì Santo nella «Missa in cena Domini» (ora Messa della Cena del Signore) che apre il triduo pasquale.

Entrambi i Vangeli (Marco e Luca) che narrano le ore immediatamente precedenti all’Ultima Cena riferiscono infatti che alcuni discepoli si offrirono di «preparare la Pasqua», cioè la Pesach ebraica, e che essi furono indirizzati da Gesù sul «luogo» in cui prepararla, ma non sul «modo» che evidentemente conoscevano perfettamente tanto che entrambi i Vangeli utilizzano le medesime parole: «trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua».

Ripercorrere il Seder di Pesach (la cena della Pasqua ebraica), che si ripete con poche modifiche da migliaia di anni e con una rigida indicazione dei piatti e del loro ordine, è quindi indirettamente sapere come si è svolta l’Ultima Cena, cioé il contesto in cui Gesù ha istituito l’Eucarestia.

I primi cristiani, che provenivano dal mondo ebraico, dovettero interpretare alla lettera il precetto eucaristico riportato dal Vangelo di Luca del «fate questo in memoria di me» e le prime celebrazioni della Pasqua, quindi, inserite nel contesto ebraico, dovettero per forza di cose ricalcare esattamente il Seder di Pesach giunto sino ai giorni nostri grazie alle comunità ebraiche.

È noto, del resto, che la liturgia cristiana, che inizialmente si limitava all’Eucarestia preceduta dalla preghiera del Padre Nostro, che secondo i Vangeli fu dettata direttamente da Gesù, si è formata progressivamente ed anche oggi non fornisce, a differenza di quanto accade per la Pesach ebraica, precetti circa le modalità con cui festeggiare la Pasqua al di fuori della celebrazione prettamente religiosa, che pure è molto complessa.

Il pane condiviso, l’uovo sodo, le erbe amare, il vino, l’agnello, che sono rimasti nella tradizione pasquale cristiana derivano allora proprio da quell’Ultima Cena che è, di fatto, il punto di maggior contatto tra la religione ebraica e quella cristiana.

Tredici a tavola

Secondo una radicata superstizione sedere in tredici allo stesso tavolo sarebbe di malaugurio perché tredici era il numero dei commensali dell’Ultima Cena.

In realtà i posti a tavola nell’Ultima Cena non erano tredici (Gesù e i dodici apostoli) ma, secondo la tradizione ebraica, quattordici.

Tenendo presente che nel Seder di Pesach non si utilizzano posate né piatti visto che si mangia con le mani e da uno stesso piatto (il che spiega anche la rivelazione del tradimento di Giuda nell’espressione di Gesù: «che intinge con me nel piatto») va ricordato che secondo il rito ebraico va riservato un posto a tavola per il Profeta Elia al quale va lasciato anche un calice (normalmente d’argento) colmo di vino.

La stessa disposizione dei posti a tavola, che nell’iconografia è rimasta fissata dal Cenacolo vinciano, doveva essere molto diversa da quanto immaginiamo perchè la tradizione vuole che il Seder di Pesach si svolgesse mangiando sdraiati attorno ad un tavolo apparecchiato con due piatti in cui erano posti, separatamente, i cibi rituali: le azzime in uno, gli altri cibi, in piccole ciotole, nell’altro.

Le pulizie di Pasqua

Le pulizie di Pasqua, che la tradizione cristiana vuole legate alla Benedizione Pasquale delle case che originariamente avveniva tra la Domenica delle Palme e la Pasqua, si collegano anch’esse alla Pesach ebraica.

Secondo il rito ebraico, infatti, per garantire l’osservanza degli azzimi, cioè dei pani non lievitati che rappresentano il principale simbolo della Pasqua ebraica, è necessario che la casa vada ripulita da cima a fondo per eliminare anche ogni minima parte di farina che potrebbe, per trascuratezza, contaminare l’impasto delle azzime facendolo lievitare come avviene con la cosiddetta pasta da riporto.

Anche l’uso di stoviglie e tovaglie specifiche per la Pasqua ha la stessa origine e la stessa motivazione.

La fine del regime quaresimale e l’influsso dei riti pre-cristiani

La Pasqua segna la fine del regime quaresimale il quale, per un lunghissimo periodo, è stato rigidamente osservato da parte dell’Europa cristiana con conseguenze, in caso di violazione, che potevano comportare anche la condanna a morte per eresia.

Se ciò giustifica l’abbondanza e la ricchezza della cosiddetta «colazione di Pasqua» non rende ragione, tuttavia, di tutta una serie di piatti tipici che in parte derivano, soprattutto al Centro e al Sud, dall’influsso dei riti pagani e della cultura magnogreca.

Va rammentato in proposito che a partire dal Concilio di Nicea del 325 la Chiesa ha stabilito che la Pasqua dovesse cadere la domenica successiva al primo plenilunio successivo all’equinozio di primavera ed è quindi compresa nel periodo dal 22 marzo al 25 aprile.

Lo stretto legame con l’equinozio, che segna l’inizio della primavera, e con le fasi lunari, e quindi con eventi che da tempo immemorabile scandiscono il mondo agro-pastorale, ha creato un legame naturale tra quel mondo ed il festeggiamento della Pasqua la quale, dal punto di vista prettamente laico, è di fatto l’unica festa agricola celebrata dai cristiani.

I cibi tradizionali, allora, riecheggiano quelli che venivano consumati nei riti pagani legati alla primavera.

È un ulteriore elemento di rottura rispetto alla Pasqua ebraica che invece, sotto questo aspetto, ubbidisce anche dal punto di vista alimentare ad un rigido canone religioso dettato in gran parte direttamente dal Libro dell’Esodo e questo per un fondamentale motivo: il Seder di Pesach è ad ogni effetto la cerimonia religiosa e quindi come ogni cerimonia religiosa ubbidisce ad un canone predefinito.

Derivano direttamente dal Libro dell’Esodo alcuni piatti: l’agnello, scelto tra le pecore o le capre, ma comunque maschio e nato nell’anno, gli azzimi e le erbe amare.

Alle prescrizioni del Libro dell’Esodo se ne sono poi aggiunte altre nei secoli per attualizzare nel rito il senso profondo, di liberazione dalla schiavitù, della Pesach.

Così il Karpas, le verdure crude da immergere in una miscela salata o acidulata che rappresenta le lacrime degli ebrei durante la schiavitù egiziana; il Beitzah, l’uovo sodo o arrostito, inizialmente simbolo di rinascita e in seguito legato, nella sua simbologia ebraica di consolazione del lutto, alla distruzione del Tempio di Gerusalemme e infine il Charoset, una miscela dolce di colore marrone che simboleggia la malta con la quale in Egitto gli schiavi ebrei erano obbligati a costruire i mattoni.

Il cibo del Seder di Pesach, come detto parte integrante e sostanziale della cerimonia religiosa, è poi accompagnato e seguito dalla lettura della haggādāh, la raccolta d’interpretazioni rabbiniche dell’uscita dall’Egitto, da canti rituali e da una serie di gesti che si ripetono in ogni Pesach.

Nella Pasqua cristiana invece si ha una completa separazione della parte religiosa da quella laica: da una parte il rito che inizia con l’accensione del cero e culmina nella mensa Eucaristica, dall’altro la festa civile con i suoi connotati tradizionali in cui le pietanze sono tutte strettamente legate alla primavera ed ai suoi prodotti.

Dicembre e gennaio sono i mesi in cui avviene, per ragioni climatiche, il sacrificio dei maiali e la conciatura dei salumi i quali, tra la fine di marzo e la fine di aprile sono ancora poco stagionati, ma già pronti per essere consumati.

La ricotta, i formaggi di pecora poco stagionati, il sacrificio degli agnelli sono anch’essi legati all’inizio della primavera così come il consumo dell’ultima parte del grano visto che i granai vanno liberati e arieggiati per far posto al grano della prossima mietitura che avverrà a partire dal mese di giugno.

Il ciclo riproduttivo delle galline è influenzato dalla luce naturale e aumenta con l’aumento delle ore diurne che inizia a crescere dopo l’equinozio di marzo. La Pasqua cade quindi anche in un periodo di maggiore produzione di uova dopo la pausa invernale.

Il coniglio pasquale, tipico della tradizione nordica in cui assume la denominazione di «Easter Bunny» e di fatto entrato nella nostra soprattutto grazie all’industria dolciaria, è la trasposizione domestica della lepre (nella lingua tedesca infatti è chiamato «Osterhase», letteralmente «lepre di Pasqua») che in questo periodo, in funzione della maggior disponibilità di erbe fresche, inizia i rituali amorosi ed è quindi simbolo di fecondità e di rinascita.

Le erbe amare, che pure derivano della tradizione ebraica, coincidono in massima parte con le erbe spontanee primaverili, quelle che popolarmente vengono dette cicoriette, che vengono raccolte ancora giovani per pulire i campi in modo del tutto naturale favorendo la crescita degli ortaggi e dei cereali.

Quando la Pasqua cade nel mese di aprile, infine, le fave, che tradizionalmente a Roma sono protagoniste, assieme al pecorino, del pranzo del primo maggio, sono nella fase iniziale della loro raccolta e quindi sono dolci e tenere.

Dai riti pagani primaverili, che in gran parte coincidono con la Pasqua e ancor di più con la cosiddetta Pasquetta, derivano poi tutta una serie di piatti della cucina agricola che si fanno sulla brace delle potature primaverili di viti e olivi, e che riguardano soprattutto i carciofi, come quelli «alla matticella» della tradizione laziale cotti nella brace delle matticelle, i tralci di vite.

La Pasquetta, pure considerata una festa minore, è la massima espressione di questo desiderio ancestrale di primavera, di uscire di casa, di mangiare al di fuori delle mura domestiche dopo le forzate chiusure invernali per immergersi nei profumi, nei colori e nel cibo primaverili anche se poi, proprio per gl’incerti meteorologici della stagione, va quasi sempre a finire che a Pasquetta piove.

Che sia in una trattoria di campagna o distesi su di una coperta su di un prato, il pranzo di Pasquetta è in realtà una riedizione della «commestio» medievale e quindi un pranzo tipicamente contadino in cui il cibo da asporto, facile da consumare anche senza stoviglie o addirittura senza posate, è tipico di coloro che uscivano all’alba e rientravano al tramonto concedendosi una breve sosta a metà mattinata per consumare il cibo che si erano portati da casa.

Una rottura rispetto ai ritmi cittadini, quindi, non solo per il contenuto, ma anche per le modalità ed il tempo del pasto.

Protagonisti di questo pasto all’aperto sono allora le carni alla brace e soprattutto le torte salate ripiene, che già hanno fatto la loro comparsa nella colazione di Pasqua e che a Pasquetta prendono decisamente il sopravvento assieme agli alimenti che non hanno necessità di cottura, come i salumi ed i formaggi e, ovviamente, il vino.

Gl’influssi della cultura araba sulla tradizione culinaria pasquale

Sembra paradossale che la cultura araba abbia influenzato anche la tradizione culinaria pasquale, ma è un dato di fatto frutto, probabilmente, più che di contaminazioni, di una comune origine di tutti i popoli mediterranei che da un ceppo comune si sono divisi in diverse lungue e culture rinnegando le loro origini per premiare, per motivi politico-religiosi, ciò che li differenziava più che ciò che avevano e hanno in comune.

Oltre agli ingredienti: l’agnello, i formaggi, la ricotta, le mandorle, i pistacchi, la frutta secca e quella candita, che quando non sono di origine araba nella cultura araba hanno finito con l’essere dominanti, e più ancora dei piatti di chiara origine araba, come la Cassata siciliana, il retaggio maggiore della cultura araba si ha nella condivisione del pasto e quindi, conseguentemente, nel privilegiare le piccole porzioni e la contestualità di pietanze dolci e salate dalle quali attingere da un desco comune.

La «colazione di Pasqua», che resta una delle tradizioni più osservate soprattutto a Roma ed in generale nell’Italia centrale e centro meridionale, è un perfetto esempio, al netto di alcuni ingredienti come i salumi che in un pasto arabo non figurerebbero mai, di condivisione e commistione del pasto mediterraneo che, a differenza nostra, i popoli di matrice araba applicano costantemente.

Questa constatazione non deve sorprendere più di tanto: ciò che noi chiamiamo «dieta mediterranea» non è infatti solo un insieme, virtuoso, di pratiche alimentari. Il suo inserimento da parte dell’UNESCO nel Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità deriva principalmente dal riconoscimento che essa, come si legge nella motivazione, «promuove l’interazione sociale, dal momento che i pasti comuni rappresentano la pietra angolare delle usanze sociali e degli eventi festivi».

La centralità del cibo nei doni pasquali

Sia il Natale sia la Pasqua vengono celebrati con l’elargizione di doni.

Mentre però questo rito sociale a Natale si manifesta con dei doni personali, che rispecchiano il carattere intimo e familiare della festa o, al più, diventano occasione per disobbligarsi o di promozione commerciale (come nei cesti natalizi o nei regali aziendali) nella Pasqua cibo e dono si fondono riprendendo una tradizione antichissima, probabilmente anche più antica dello stesso rito ebraico su cui s’innesta la Pasqua cristiana, di dono del cibo come creazione, riaffermazione o rinnovo di un legame.

I due cibi principali su cui si concentrano i doni pasquali sono il pane e le uova.

Quanto al primo, che si è trasposto nella tradizione cristiana nei dolci a base di cereali divenuti col tempo sempre più complessi e ricchi, è agevole individuarne le radici nel valore rituale che il pane aveva già, ancor prima del sacramento eucaristico che per i cristiani ne muta completamente il significato, nella tradizione arcaica di condivisione e di ospitalità e che attraversa tutte le culture del bacino del mediterraneo.

La stessa parola «compagno», introdotta nel medioevo ben prima che assumesse il significato laico attuale, deriva dall’unione di «cum» e «panis» ed è la radice di tutta una serie di termini: da compagnia ad accompagnare, che rinviano, nelle loro diverse accezioni, alla condivisione che può essere di uno stato temporaneo, come per i compagni di scuola, al farsi compagnia come momento di condivisione delle emozioni, o ad un legame affettivo stabile eventualmente alternativo a quello matrimoniale laico o religioso.

Donare il pane, e per estensione donare quel pane arricchito che sta alla base dei dolci più antichi, soprattutto quelli del periodo di Pasqua, è quindi un gesto assieme di condivisione e di legame spirituale oltre che materiale.

Quanto alle uova, il significato simbolico del loro dono, attestato già nella civiltà Persiana, attraversa tutte le culture ad ogni latitudine. Rinascita, consolazione, fecondità e prosperità sono alcuni degli elementi simbolici che le uova rappresentano nella festività paquale.

L’unione dei due cibi, che si rinviene in moltissime preparazioni pasquali, come la cuddura siciliana, la cuzzupa calabrese o il casatiello napoletano, rafforza i significati simbolici di entrambi.

Molto interessante è il dono della cuzzupa calabrese – un dolce pasquale il cui nome deriva dall’arabo khubz (pane) in cui vengono posizionate le uova sode, rigorosamente in numero dispari – dalla suocera al genero e che ha un numero di uova definito dal detto: «ccù nova si rinnova, ccù sette s’assetta» (con nove si rinnova la promessa, con sette si assetta, si sposa) con chiaro riferimento alla simbologia dell’uovo come metafora della fecondità e della vita che si rinnova nelle future generazioni.

Poche feste come la Pasqua, che è la principale festa cristiana, assommano quindi significati sociali, religiosi, arcaici, laici e pagani che si esprimono nel valore del cibo come mediatore e strumento di trasmissione di cultura da una generazione all’altra.

Chissà quale significato assumerà il cibo pasquale se, come pare di comprendere, sarà in un futuro prossimo o lontano sempre più omologato, industrializzato, sintetizzato in provetta, decontestualizzato dai territori e dalle culture.

Sarà ancora cibo?
Sarà ancora Pasqua?

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