Menù, si fa presto a dire!

menù

Checché se ne dica il compito più difficile di chi si dedica alla preparazione di un pasto, sia esso per la propria cerchia familiare o per un ricevimento, non è cucinare: è la redazione del menù.

Nella costruzione di un menù entrano infatti in gioco moltissimi fattori: l’abilità di chi lo eseguirà, la disponibilità economica e degl’ingredienti, il gusto, la fantasia, la cultura culinaria, il tempo a disposizione per la preparazione delle pietanze e la consumazione del pasto.

Un rompicapo per risolvere il quale ci si ritrova drammaticamente soli perché alla domanda: «cosa volete mangiare?» La maggior parte dei commensali risponderà: «fai tu» o peggio, come l’Anton Ego di «Ratatouille» a Remy: «sorprendimi!».

La nascita della parola menù

La parola menù identifica indifferentemente sia l’elenco delle pietanze che verranno servite durante un pasto, sia la lista dei piatti disponibili in un determinato giorno nella ristorazione professionale e che vengono descritti su di un supporto che una volta era esclusivamente cartaceo, ma che oggi viene spesso digitalizzato.

Nel primo significato il menù (francesizzazione di «minuta») ha preso il posto delle varie «liste» e dei vari «servizi» (di cucina o di credenza) che ogni libro di cucina che si rispettasse doveva contenere per agevolare il lavoro di mastri di casa, scalchi e confettieri.

Nella ponderosa «Opera» del cinquecentesco Bartolomeo Scapp queste liste, suddivise per le diverse occasioni e le diverse stagioni, occupano una parte considerevole del volume, ma liste simili si ritrovano anche nel libro di Pellegrino Artusi rivolto ai cuochi dilettanti e innumerevoli sono i libri di cucina che usano «menù» nel titolo.

Un compito, quello di «divisare» la lista quotidiana o settimanale, che, come sottolineava l’anonimo autore dell’ottocentesco «Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi», presupponeva abilità, tatto e profonda conoscenza del datore di lavoro, dei suoi gusti e delle sue disponibilità.

Nel secondo significato il «menu» (senza accento) è entrato nell’alta cucina (v. Domenico Musci «L’evoluzione del primo piatto attraverso la lettura dei menu storici») ai primi del 1800 con il «servizio alla russa» che, a differenza di quello alla francese che poneva simultaneamente sul tavolo tutte le pietanze, le faceva uscire dalla cucina una alla volta determinando l’esigenza per i commensali di essere preventivamente informati per poter ponderare le proprie scelte.

È comunque con Antoine Beauvilliers (patron del primo vero ristorante della Storia, il parigino «La Grande Taverne de Londres») che il menù, in collaborazione con Antonin Carême, divenne alla metà del 1800 un esercizio di armonia e di buon gusto.

I menù come istantanee del loro tempo

I menù delle diverse epoche restituiscono altrettante istantanee del gusto, delle risorse e dell’indole e persino dello stato d’animo dei loro redattori non meno che dei fruitori.

Dall’incipit del pranzo delle Minenti del Belli: «Mo ssenti er pranzo mio», capiamo immediatamente che la protagonista (l’arricchita dell’epoca) vuole esibire la propria agiatezza, mentre negli «Spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffè» di Fred Bongusto c’è tutta la mestizia di un pasto solitario ben lontano da quelli consumati a Detroit con la mitica Lola.

Dal sofisticato menù della cena del Titanic riservato ai passeggeri di prima classe la sera del naufragio possiamo intuire lo sgomento che li prese qualche ora dopo quando il loro mondo dorato andò letteralmente a fondo, mentre in quello del «Gaetanaccio» di Gigi Proietti e Luigi Magni c’è l’affamato che, come il Capannelle dell’«Audace colpo dei soliti ignoti», vuole letteralmente sfondarsi di cibo dopo una vita di privazioni.

Filippo Tommaso Marinetti volle fare dei suoi menù futuristici il grimaldello per demolire la società borghese del suo tempo, mentre attraverso di essi ha fatto irruzione nella cucina contemporanea la «Nouvelle cuisine» di Henri Gault e Christian Millau, con i menù «bloccati» che non lasciano scelta ai commensali.

Le regole del menù

Non esistono regole inderogabili e ognuno può districarsi come crede, però anche il menù ha la sua grammatica.

Prima regola la stagionalità, seguita dalla semplicità di decrittazione degl’ingredienti.

La descrizione deve dare valore alle materie prime, ma senza esagerare: è un menù non un bugiardino.

Non ripetere lo stesso ingrediente né moltiplicare a dismisura le portate è buona norma, come quella di creare un rapporto tra la sapidità e la dolcezza, la forza e la delicatezza: meglio salire d’intensità che scendere anche per semplificare la scelta delle bevande d’abbinamento.

Gestire oculatamente gli allergeni e gl’ingredienti divisivi come aglio e cipolla e fornire comunque un’alternativa, dare spazio anche allo stile vegetariano, praticare la digeribilità.

Ricercare il benessere dei commensali più del loro stupore: il menù in fondo è anche un esercizio di convivialità.

Foto di Dorothe da Pixabay

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