Maximilian Nisi: Un Autunno di Fuoco e dintorni

Maximilian Nisi e Milena Vukotic. (Foto di Claudio Ammendola)

11 luglio. Ho appuntamento con Maximilian Nisi per una nuova conversazione di teatro, alle porte del suo debutto con Un Autunno di Fuoco di Eric Coble, accanto ad una grande signora del teatro, Milena Vukotic, con la regia di Marcello Cotugno e la produzione del Teatro Stabile La Contrada di Trieste. La scenografia di Luigi Ferrigno, i costumi di Andrea Stanisci ed il disegno luci di Bruno Guastini sono protagonisti tra i protagonisti, introducendo il pubblico nell’intento del drammaturgo e, al contempo, nel carattere peculiare di questa rappresentazione. La commedia andrà in scena i primi due giorni di agosto sul prestigioso palcoscenico di Borgio Verezzi, nell’ambito di un Festival del Teatro che è segno di cultura ancor prima che di spettacolo

Ho letto con interesse la versione in inglese del copione di Coble. Maximilian mi ha poi fatto dono dell’adattamento in traduzione di Marco Casazza. È un testo interessante, pregno di simbolismo e di cristallizzazioni dell’animo umano. Merita approfondimenti.

Dopo la prima intervista fatta a Nisi, tre mesi or sono, in occasione de Il Piacere dell’Onestà, abbiamo entrambi capito che la parola “intervista” ha poco a che fare con i nostri incontri. Imbastiamo conversazioni, flussi di coscienza teatrale e personale, voli tra parole e personaggi, caratteri da inquadrare, motivazioni da esplorare. Quando parliamo di teatro ci trasformiamo in astronauti sparati sulla luna di Méliès ed i nostri discorsi trascendono il palcoscenico per entrare nel cinema, nella musica, nella poesia, nella pittura, nella vita …

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Ore 16.30. Maximilian mi raggiunge in studio, dove ci siamo dati appuntamento. Roma è stretta in una morsa di calore tropicale. Sembrano affannati anche i gabbiani; i grilli friniscono a fatica. Cerco di esorcizzare l’estate visualizzando cime dolomitiche, gelidi laghi montani in cui fare una nuotata. Training autogeno. Al contrario di me, Maximilian vola sul caldo mantenendosi apparentemente fresco. Indossa persino la giacca; stranamente non ha il collo fasciato dal suo immancabile foulard. Io ho caldo con tutta l’aria condizionata.

“Ciao Raf, come stai? Bello rivederti”

“Ciao Maxi”. Chiudo per un attimo il mio infaticabile ventaglio, che nemmeno Lady Windermere avrebbe mai potuto usare a questi ritmi, e ci abbracciamo.

“Hai caldo?” lo chiede davvero come se fosse possibile non averne.

La risposta che ho negli occhi deve essere eloquente. Ride. Ha un modo di gioire assolutamente comunicativo.

Allora, Maxi, intanto complimenti vivissimi per la lettura scenica dall’Edipo Re del 23 giugno scorso al teatro Olimpico di Vicenza. Hai condiviso la scena con l’affascinante e bravissima Maria Letizia Gorga e con gipeto, accompagnati dalle musiche di Stefano De Meo. Tuo anche il coordinamento e l’allestimento. So che è stato un trionfo.

È stata un’esperienza davvero emozionante. Il Teatro Olimpico di Vicenza è un luogo magico. Nel 1995 l’Accademia mi conferì il Lauro Olimpico per la mia interpretazione di Emone, nell’Antigone di Sofocle, diretto da Terzopoulos. Da allora ho più volte calcato quel palcoscenico. È stato un privilegio tornarvi, oggi, con un reading da l’Edipo Re, che è la prima tragedia ad essere stata rappresentata in quel teatro. Con lo sfondo della magnifica scenografia cinquecentesca dello Scamozzi, ho voluto in scena sei manichini con costumi antichi, in modo che accanto a Giocasta, Edipo e Tiresia, cui stavamo dando voce noi attori, fossero rappresentati anche il Sacerdote, o, meglio, la Sacerdotessa, l’Uomo di Corinto ed il Pastore. La musica dal vivo e le luci, poi, hanno completato un quadro altamente suggestivo. Oltre al tributo di un pubblico generosissimo, abbiamo ricevuto lettere di stima, sia da parte del Sindaco, sia da parte dei Direttori dei teatri del Veneto e degli Accademici.

Il teatro greco cattura nel profondo

Vi ritrovo sempre un profilo di modernità. Sofocle descrive un uomo che pensava di avere tutto, ma, al contempo, ci insegna che nessuno può dire di essere stato fortunato sino alla fine della propria vita.

Modernità anche nell’approfondimento delle dinamiche più nascoste dell’uomo. Molti personaggi, infatti, sono diventati icone psicologiche. L’Edipo soprattutto.

Certo. E non è facile comunicare tutto quello che si annida dietro simili personaggi: psicologia, mito … soprattutto dovendo lavorare ad una riduzione della durata massima di un’ora. Il calore con cui il pubblico ha accolto il nostro lavoro mi ha fatto capire che ci siamo riusciti, siamo arrivati al centro del dramma, presentandolo nel suo nucleo essenziale, pur senza trascurare la semplicità.

Non hai avuto tempo di dormire sugli allori, però. Subito dopo l’Edipo hai iniziato le prove di Un Autunno di Fuoco, che debutterà a Borgio Verezzi il primo agosto …

Il 23 c’è stato l’Edipo, sono tornato il 24 e il 26 sono iniziate le prove di Un Autunno di Fuoco, cosa che mi ha generato non pochi sensi di colpa: io, normalmente, arrivo alle prove un pochino più preparato, ma non ho avuto proprio modo. Mi ero anche portato il copione dietro, dicendomi che avrei studiato nel viaggio di ritorno, ma ero veramente distrutto. E, poi, avevo ancora in bocca le battute del personaggio appena interpretato; a me rimangono nella testa, nelle orecchie per settimane.

Figurati che violenza che hai dovuto fare su te stesso per annullare quel flusso di pensieri residui ed agganciarti ad un altro personaggio, peraltro completamente differente …

Decisamente differente! Un Autunno di Fuoco è un’opera contemporanea. Una signora ottantenne, Alexandra, si barrica in casa minacciando di far saltare in aria l’intero palazzo con delle moltov artigianali, perché due dei suoi tre figli vorrebbero mandarla in un pensionato per anziani. Io interpreto Chris, il terzo figlio, che torna dopo vent’anni di lontananza e di silenzio. Mi arrampico sull’albero, entro dalla finestra, e tento di far cambiare idea a mia madre. Il nostro dialogo, tra rievocazioni e recriminazioni, è il fulcro della storia.

Debutterete il primo agosto al Festival di Borgio Verezzi, con una replica il giorno dopo.

Sono alla mia decima presenza a Borgio: nove come attore ed una come regista. È un Festival prestigioso che amo molto.

Stefano Delfino è raffinato nelle sue scelte teatrali

Lui è sicuramente molto raffinato. Questo Festival è cresciuto negli anni ed è, ormai, un magnifico salotto sul mare dove si fa ottimo teatro.

Quali sono le tappe successive?

In autunno saremo a Trieste e zone limitrofe, poi sarà la volta di Roma e Torino. Riprenderemo in modo più consistente nel 2019.

Il titolo. The Velocity of Autumn è stato tradotto con Un autunno di fuoco. Perché?

Devo dire che La velocità dell’Autunno mi piaceva molto, ma non volevamo rischiare di focalizzare l’attenzione solo sul tramonto della vita. Avevamo anche pensato di intitolarlo Fuoco d’Autunno, ma era troppo simile al titolo di un libro di Irène Némirovsky.

Sì, Fuochi d’Autunno

A quel punto, abbiamo evitato tout court di conservare Autunno come seconda parola, in modo da non richiamare alla memoria altre opere, e ce ne sono tante, tra le quali un famosissimo film di Bergman, Sinfonia d’Autunno

Splendido film, dove, peraltro, la storia è focalizzata su un dialogo tra una madre ed una figlia che non si vedono da tempo e che sviscerano antiche incomprensioni.

Siamo, quindi, approdati a Un Autunno di Fuoco, titolo riconducibile in parte alla minacciata esplosione delle molotov della protagonista.

Forse vi si può trovare anche un riferimento a quello che viene detto, al dialogo tra madre e figlio, che, sotto il profilo emotivo e personale, è altrettanto esplosivo.

Sì, certo!

C’è più autunno o più inverno, in questa pièce?

A giudicare dal titolo, escluderei l’inverno. Sebbene … Io ho un giardino e ti posso dire che il momento in cui le piante sono più vive è proprio quello invernale, perché hanno dentro un grandissimo potenziale, si preparano alla fioritura, e in quest’opera, sotto il profilo del dialogo tra i protagonisti, c’è una gestazione di sentimenti ed emozioni quasi invernale.

In effetti Coble sorvola su come o dove le emozioni affiorate nel dialogo sbocceranno. Sappiamo solo che lo faranno. È inevitabile. L’inverno è meraviglioso sotto tutti i punti di vista.

Lo so, lo so che sei una creatura invernale.

Sono più che invernale, sono uno Yeti. Mio padre mi chiamava Fiocco di Neve, che era, poi, la mia maschera preferita, quando ero piccola; a volte Smilla, dal libro di Peter Hoeg.

[Ridiamo. Abbiamo entrambi un’assoluta repulsione per l’equanime estraneità che, a volte, anima i dialoghi giornalistici. Maximilian non vuole rinunciare ad un’esplorazione dei reciproci universi: gli ho, dunque, promesso di non tagliare le frasi che parlano di me, almeno non tutte]

Fiocco di Neve … mi piace. Comunque, ti dirò: nemmeno noi abbiamo ancora messo perfettamente a fuoco il titolo. A volte, durante le prove, ci sbagliamo: mettiamo l’articolo, non lo mettiamo … Ciò che sappiamo è che, in linea di massima, è il titolo giusto.

Molti i piani di lettura di questo testo: rapporto con la vecchiaia, con se stessi, con la famiglia …. Iniziamo con Alexandra e la vecchiaia. Nelle note di regia, Marcello Cotugno ha assimilato il testo di Coble ad una poesia di Dylan Thomas: “Non andartene docile …”. Che ne pensi?

È una splendida poesia, molto profonda. A me, però, non suscita le stesse emozioni rispetto al testo. I personaggi di Un Autunno di Fuoco sono alla ricerca di risposte, sono in cammino. Di sicuro, la loro non è una fine. Il futuro di Alexandra è pieno di colori. Forse, tra i due, quello che ha meno colore è Chris.

[Le parole di Maximilian mi riportano alla mente un’altra poesia, Viaggio a Bisanzio di Keats: “Un uomo anziano non è che una misera cosa, una giacca a brandelli sopra un bastone, a meno che l’anima batta le mani e canti, e più forte canti”. Nella sua vecchiaia, Alexandra batte le mani e canta, urla, si fa sentire, si impone]

Parlando di Un Autunno di Fuoco è quasi inevitabile tracciare un parallelo con Visiting Mr Green di Jeff Baron, che tu hai portato in scena accanto a due mostri sacri del teatro italiano, Corrado Pani, prima, e Massimo De Francovich, poi, con il quale, se non erro, tornerai in scena nella prossima stagione.

Sì, stanno lavorando per organizzare un piano di recite che renda significativa una ripresa. Per ora siamo in stagione a Vicenza e in Friuli Venezia Giulia.

Anche lì due persone costruiscono un rapporto attraverso il dialogo, anche lì c’è un giovane con una famiglia poco comprensiva alle spalle, ed un anziano che vive ignorando d’esserlo, con i suoi antichi rancori, le sue antiche paure ormai sclerotizzate. Alexandra e Mr Green: rabbia o follia?

In Alexandra vedo molta rabbia. È una donna che, in questo momento della vita, non si sente capita e, soprattutto, ascoltata. Lo ripete costantemente: “Tu non mi ascolti … tu vuoi confondermi”. La sua reazione, ovviamente, è eccessiva e, forse, poco credibile, visto che costruisce bombe artigianali per farsi saltare con tutto il palazzo, ma in questo escamotage scenico, che Coble prende anche dal mondo americano, dove le armi fanno parte della quotidianità, si annida la reazione estrema al disagio di non essere più ascoltata, pur avendo ancora grandi energie, grandi cose da dire.

È vero: in Alexandra c’è rabbia. Quando fa cenno a ciò che le impedisce di essere giovane  – le ginocchia, i vuoti di memoria … –  ha gesti stizzosi, adirati.

La paura di Alexandra, infatti, è quella di perdersi, di dover fronteggiare, in un luogo estraneo, in mezzo ad estranei, il fatto di non essere più quella che era. Pretende pazienza, pretende la possibilità di compiere questo passaggio lentamente, in casa propria, senza nessun tipo di trauma.

Trovi questa stessa rabbia anche in Mr Green?

In Mr Green c’è più rancore che rabbia; c’è chiusura al mondo. È la natura stessa, se ci pensi, a segnare la differenza tra i due. L’uomo, se sta per morire, smette di lottare; la donna no, resta in gara fino all’ultimo; è abituata a farlo, lo ha sempre fatto nella vita. Alexandra è un personaggio che ancora lotta, perché vuole assolutamente essere ascoltata. L’altro si chiude in solitudine. Sono due personaggi anziani che rispondono al dipanarsi della vita in maniera completamente diversa.

Tu e Milena Vukotic dividerete il palcoscenico con un albero.

È un magnifico albero, cui Alexandra è affezionata come a un figlio. Una presenza altamente simbolica. Lei ha combattuto affinché non venisse tagliato e sottolinea il fatto che “non si è mai lamentato”, proprio come se fosse un membro della famiglia. Uno dei freni a far saltare tutto in aria è proprio l’albero. Chi se ne occuperà, dopo? Inoltre, l’albero rappresenta l’avvicendarsi delle stagioni e, soprattutto, la rinascita dopo l’inverno. È la conferma al fatto che anche quando sembra finita, si può tornare a fiorire.

Concezione celtica della natura: rispetto delle stagioni, sacralità arborea. Del resto Eric Coble ha origini scozzesi. L’albero, radici in terra e chioma al cielo, è simbolo dell’uomo stesso e, come tale, è simbolo cosmogonico della vita.

Nella nostra scenografia, curata da Luigi Ferrigno, avrà un ruolo preminente, centrale. Non può essere diversamente.

Ho notato che Mr Green è solo un cognome, come il Ciampa di Pirandello, mentre Alexandra è solo un nome. Per le donne, normalmente, il cognome è qualcosa di estraneo, di maschile: passano da quello del padre a quello del marito; è solo il nome a definirle per quello che sono. Di Mr Green, invece, non importa il nome, perché lui è chiamato a rappresentare la famiglia, la tradizione. Le sue donne hanno un nome: sua moglie, sua madre, sua nipote. Lui no. È come se non esistesse fuori dai suoi valori familiari e religiosi.

Sì, è vero, nessuno sa come si chiami. Mr Green è Mr Green; è un’istituzione … Alexandra, invece, è se stessa fino in fondo, coerente con ciò che è stata in passato, con i suoi cambiamenti, le sue esplorazioni della vita, i suoi viaggi; viaggi nel corso dei quali il proprio nome, ossia la propria identità libera da convenzioni familiari, era il suo unico bagaglio. Tra l’altro, facendo le prove, abbiamo visto che, nel testo di Coble, nessuno chiama Alexandra per nome.  Io, parlando con lei, non dico mai “Alexandra”, perché sono il figlio. Probabilmente faremo pronunciare il suo nome citando in forma diretta un discorso del marito. Sarebbe un peccato che il pubblico non ne venisse a conoscenza. È un nome talmente bello e così aristocratico! Perfetto per dare l’idea di questa donna, quanto meno nella versione italiana. Nelle edizioni americane il personaggio è differente, meno elegante, più diretto, aggressivo, sicuramente più vicino alla sit-com.

Del resto è un’opera rappresentata a Broadway. Non è un off, non è un off-off. La tradizione di Broadway è quella; la nostra è diversa e diverse sono le esigenze artistiche.

Questo personaggio è splendido, se accostato alla serietà di Milena, alla sua bravura!

Viziata dal mio sconfinato amore per Shakespeare, nella vecchiaia di Alexandra vedo un po’ Re Lear: l’effetto morfinizzante dell’età, la fragilità legata al passare del tempo, il carattere spigoloso e volitivo seppur, ormai, ovattato, l’andatura instabile, il rallentamento delle facoltà cognitive …

Certo! Il suo modo di essere anziano ed egocentrico, ma anche debole. Soprattutto il suo rifiuto di dover subire le decisioni altrui, come se lui non potesse prenderne, che è, poi, quello che teme Alexandra.

[Mentre Maximilian parla del Re Lear, accendendo gli occhi, come sempre accade quando parla di Shakespeare, ascolto in silenzio, nei meandri della mia memoria, le parole di Regana: “Oh signore, voi siete vecchio; la natura in voi si trova proprio sull’orlo del suo limite: voi dovreste lasciarvi governare e dirigere dalla prudenza di qualcuno, capace di comprendere il vostro stato meglio di voi stesso”. Non vuole farlo Re Lear e non vuole farlo Alexandra]

Alexandra non vuole che i figli si occupino di lei, che la facciano sentire vecchia, incapace, decidendo al suo posto cosa sia giusto o sbagliato. Afferma di aver cominciato a capire che stava invecchiando guardandosi negli occhi dei figli.

Gioco di specchi

Guardarsi negli occhi degli altri è fondamentale per completare il quadro di noi stessi.

A proposito di quadri, tu sei un artista a tutto tondo, visto che ami anche dipingere. Bene, in questo momento ti chiedo di dipingere un quadro e raccontarmelo. Abbiamo parlato della vecchiaia di Alexandra; ebbene, come dipingeresti la vecchiaia di Maximilian? Colori, movimento, figure …

Amo dipingere. Iniziai da ragazzo ed una cara amica, molto più grande di me, credendo nella mia arte pittorica, mi aiutò a commercializzare i miei quadri. Aveva un marito molto geloso, però, che vedeva, tra noi, una liaison che non c’era; così ho dovuto usare uno pseudonimo. Anche a mio padre, uomo brillante, colto, pieno di fascino, piacque la mia pittura e tentò di aiutarmi, a modo suo; solo che era un modo che non si addiceva al mio carattere. Lui voleva organizzare una mostra grandiosa, incuriosire il pubblico attraverso la stampa, con articoli che annunciassero la mostra come un evento che finalmente stava per realizzarsi. Peccato che non avessi dipinto più di tre quadri, allora! Negli anni seguenti ne ho venduti parecchi; ancora oggi ho qualche richiesta. Dipingere è liberatorio e mi dà grandissima soddisfazione. È un lavoro creativo. Se io trovassi uno spazio, porterei lì tutti i miei colori, le mie tele, i miei pennelli e penso che sarei la persona più felice del mondo, perché, ad essere sincero, a volte sono stanco di recitare.

Non fare scherzi.

Recitare è quasi sempre una fatica mal ricompensata. Dipingere è un’attività che si può gestire più facilmente; e, poi, è una forma d’arte indipendente, come la musica, la tua scrittura: tu ti svegli, nel cuore della notte, e puoi scrivere. Io, invece, non posso svegliarmi nel cuore della notte e recitare in salotto. Per farlo ho bisogno di una scrittura e, soprattutto, di un pubblico.

Però non mi hai risposto: la tua vecchiaia …

La mia vecchiaia … Io non riesco ad immaginarmi vecchio. Sono molto crepuscolare su questa cosa. I colori di un ipotetico quadro sarebbero grigi, gelidi, quasi irreali. Colori vivi resi freddi dal bianco di zinco, per intenderci. Il tempo che passa mi gela. Tempus fugit

E, se potessi manipolare il tempo? Vorresti tornare indietro o ti vorresti fermare qui?

Tornare indietro. Fermarsi ora sarebbe già tardi. Fa molto Faust, lo so. Il fatto è che sono molto affascinato dalla gioventù. Le persone giovani mi incuriosiscono; poi, magari, non le capisco, però mi piace la loro energia e la loro possibilità di fare qualsiasi cosa. I giovani hanno il mondo in mano, che è il loro scettro, ma spesso non ne sono consapevoli.

La potenzialità dell’inverno …

La potenzialità di un albero a dicembre! Un tempo pensavo che sarei vissuto fino a novanta o cento anni. Ragionavo con la testa di un giovane che è fisiologicamente lontano dal decadimento fisico. Oggi mi spaventa l’idea del mancato controllo del corpo che la vecchiaia porta con sé.

Non è sempre così. Frughiamo nell’ottimismo della vita, ti prego. A me piace vedermi centenaria, mentre passeggio in un bosco scozzese, con i capelli bianchi, un abito comodo, prima di tornare a scrivere accanto al camino!

Tu sei una donna e le donne sono stoiche e meravigliose. Mia madre, ad esempio, è una donna che, nonostante gli acciacchi e la complessità della vita che ha vissuto, è di una saggezza, di una letizia senza pari.

E ha un senso artistico incredibile, secondo me. È vero che ti portavano a teatro in due, da piccolo, ma qualcosa mi dice che era una sola, ossia tua mamma, l’anima con cui condividevi nel profondo quello che stavi vedendo, o la musica che stavi studiando. Deve essere una donna fantastica. Forse mi sbaglio, ti conosco da poco tempo, ma sento che c’è molto tua mamma dietro quello che hai appreso da piccolo, dietro la nobiltà della tua arte recitativa, della tua passione, della tua curiosità.

C’è solo lei. Solo lei. Anche se viviamo lontani e non ci vediamo spesso come vorremmo, la incontro quotidianamente, dentro di me, in ogni cosa che faccio, in quello che sono. Forse le parole che possono descrivere bene il nostro legame le ha scritte una poetessa californiana, Sharon Doubiago: “Mia madre è una poesia che non sarò mai in grado di scrivere, anche se tutto quello che scrivo è una poesia a mia madre”.

E di colpo il mondo si riempie della tua voce, Maximilian. L’amore per la madre fa sempre tremare l’anima.

Non che mio padre sia stato meno importante, intendiamoci; ha inizialmente rappresentato il lato eccentrico della vita e, poi, quello severo. Quando decisi di seguire la scuola di Strehler a Milano, lui non fu d’accordo; mi avrebbe voluto avvocato. Così mi ostacolò, tagliandomi i fondi. Andai a Milano con 40.000 lire in tasca e vi rimasi cinque anni. Di giorno frequentavo la scuola; la sera, per mantenermi, andavo a lavorare nei teatri come maschera. Inoltre davo lezioni di pianoforte e ripetizioni per i maturandi. Per un mese ho anche lavorato in un bar. Non so se, in quegli anni, io abbia fatto un lavoro perfetto, a scuola. Al contrario dei miei colleghi di corso, che potevano alzarsi la mattina alle nove e, dunque, erano pieni di energie durante le lezioni, io la sera finivo le lezioni alle 19 e, alle 19.30, ero in teatro a fare la maschera fino a mezzanotte. A volte non riuscivo neppure a mangiare. Ero distrutto. Pesavo poco più di cinquanta chili. Però ce l’ho fatta: mi sono pagato la mia casa e mi sono diplomato. Alla fine, devo dire che l’atteggiamento oppositivo di mio padre si è rivelato un grande insegnamento. Ancora oggi, se c’è un momento in cui vagamente mollo, mi viene in mente quello che ho fatto per arrivare qui e mi rialzo in piedi

Le difficoltà forgiano il carattere.

Sì. Ed è ciò che manca a molti miei allievi.

Torniamo a teatro per parlare di Chris. Si è lasciato alle spalle padre, madre e fratelli. Le streghe del Macbeth, come li definisce lui stesso. Nel mancato dialogo con il padre, così come nel dialogo errato con la madre e con i fratelli, si addensa il grumo di rancore, palpabile, che impedisce il fluire del dialogo, vuoi a causa dell’originalità di Chris, vuoi per la sua diversità; un grumo di rancore che ostruisce le arterie della comunicazione, generando l’ictus insanabile che paralizza quella famiglia. Ciononostante, dopo vent’anni, dopo un silenzio tenace, dopo aver disertato persino il funerale del padre, Chris torna per fare la cosa giusta, apparentemente.

Torna, si arrampica sull’albero, entra in casa della madre, che si è barricata dentro con le sue bombe artigianali, e parla con lei. Riesce ad aiutarla? Fa la differenza? Non lo so. Noi stiamo ancora provando, siamo ancora in cerca di risposte sul senso del personaggio e degli eventi.

Diciamo che, aiutando la madre, aiuta anche se stesso a fare i conti col passato. Se sia la cosa giusta non lo so. Di certo non è una cosa sbagliata. E di cose sbagliate se ne potevano pensare a iosa. Parenti Serpenti di Monicelli. Ricordi? È un film che rappresenta l’antimateria rispetto alla pièce di Coble: i figli, per non occuparsi dei genitori, li fanno saltare in aria con una vecchia stufa a gas. Una cosa disumana.

Di un cinismo atroce. Sei sicura che anche qui non vi sia eguale cinismo, almeno in Michael e Jennifer, i due fratelli di Chris?

Dici che non stanno salvando la madre da se stessa?

Lei, ad un certo punto, manifesta chiaramente una preoccupazione: Michael e Jennifer non sono tanto impensieriti dal fatto che lei muoia, quanto, piuttosto, dal fatto che, facendo saltare in aria la palazzina, Alexandra vanifichi il loro patrimonio immobiliare. In realtà è un testo dove è possibile tutto e il contrario di tutto.

È vero …

Le relazioni familiari sono sempre complicate.

A proposito di relazioni familiari, forse possiamo far tornare l’albero. Non a caso la genealogia ne ha catturato la struttura: un unico ceppo e tanti rami quante sono le generazioni che si susseguono. A dirla tutta, nel Paradiso Terrestre l’albero dispensa anche frutti del peccato.

Veleni sottili dai quali fuggire.

E proprio di fuga voglio parlare. Un noto neuroscienziato e filosofo francese, Henri Laborit, ha scritto: “Quando non può più lottare contro il vento ed il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa, che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa ed un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo per salvare barca ed equipaggio. In più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme”. Ebbene, Chris riesce a lasciarsi alle spalle tutto, scoprendo nuovi lidi, o la famiglia malata da cui si è distaccato lo segue?

No. Assolutamente no. Non ci riesce. La famiglia lo segue. Nella fuga ci portiamo sempre dietro ciò da cui scappiamo.

[L’estrema sintesi e la chiarezza della risposta di Maximilian mi fanno tornare alla mente Tom, nello Zoo di Vetro di Tennessee Williams: “Non andai sulla luna, molto più lontano andai, perché il tempo è la linea più lunga tra due punti. Viaggiai e viaggiai. […] Avrei voluto fermarmi, ma qualcosa mi perseguitava. Mi prendeva all’improvviso, mi coglieva a tradimento. Forse un motivo familiare”. Ciò che ci buttiamo alle spalle, a volte, assomiglia a ciò che abbiamo di fronte]

Quando sei giovane sembra più semplice affrontare l’assenza, ma poi ti rendi conto che non è così. Mia nonna diceva sempre che i conti si fanno con l’oste: finché non hai il conto tra le mani non sai quanto ti è costato quel che hai mangiato. Anche nella vita è così: i conti arrivano alla fine. Chris, ad esempio, accenna anche al suicidio, la fuga estrema, anche se io non credo che si voglia suicidare.

Nemmeno io lo credo. Almeno non ho percepito così questo personaggio. Le sue mi sembrano più asserzioni nietzschiane, utili a passare una notte di crisi. Certo è che non si può dire sia un uomo sereno. Non dobbiamo dimenticare il suo allontanamento ventennale dalla famiglia, il suo mancato rientro persino per il funerale del padre, che, forse, fa pensare ad una sua eccessiva rigidità caratteriale, quasi ad un velo di rancore.

Chris, come tante persone, ha i suoi nodi inestricabili, i suoi conflitti profondi con il tessuto familiare. Non è andato al funerale del padre, ma questo non fa di lui una persona rigida o rancorosa. Non è il solo. Anche a me non piacciono i funerali e più le persone sono care, più voglio ricordarle vive. Inoltre, pensiamo che la pièce è ambientata in America, ossia in un paese dove, a sedici anni, si va dall’altra parte del mondo e i rapporti familiari si riducono a un paio di incontri l’anno.

Anche questo è vero. L’allontanamento di Chris, dunque, rientra nella normale dilatazione dei rapporti familiari americani, ruota attorno ad un conflitto generazionale alla Father and Son di Cat Stevens, o nasce da una più profonda spaccatura familiare, soprattutto con il padre? Sto pensando al mio amato Phil Seymour Hoffman in Onora il Padre e la Madre, quando, piangendo di rabbia, manifesta il suo odio per il padre dicendo: “Per tutta la vita ho avuto paura di diventare come lui. Per tutta la vita”.

Forse tutte queste cose insieme. Io credo che non sia tanto importante la fuga quanto il ritorno. Sono i conti che Alexandra e Chris fanno con il passato a rappresentare il fulcro della storia.

È importante che Chris fronteggi le streghe del Macbeth, come egli stesso definisce la sua famiglia? Deve immergersi in modo catartico nelle incomprensioni antiche, nel vortice di ferite reciproche, come accade nel Lungo viaggio verso la notte di O’Neill?

Sì. Deve fronteggiare gli spettri familiari. Prendi, ad esempio, la maschera da Universo indossata da piccolo. Inizialmente la madre era sua alleata: gli aveva comprato il libro sull’universo, lo aveva aiutato a fare il costume. Poi, però, cambia idea e quella stessa originalità per cui l’aveva lodato, e che agli altri due figli aveva rimproverato di non avere, diventa motivo di critica. Alexandra è una madre sui generis: ha trascorso la sua giovinezza fuggendo da un paese all’altro, inseguendo se stessa senza costrizioni; si è sposata quasi per caso; confessa che i figli le erano di peso; e, da vecchia, critica ancora il marito per aver voluto a tutti i costi comprare la casa, comprando, con essa, una stabilità che la faceva inorridire. Nella fuga di Chris c’è anche quel DNA.

È un dialogo fantasioso, il loro; una sorta di officina teorica con un unico vasto argomento, la vita, ed è caratterizzato da violenze verbali ed alternanze dialogiche. Mi piace molto anche la scenografia verbale e mimica, che vi si inserisce, perché le note scenografiche di Coble sono abbastanza facili: una stanza, porta sigillata, poltrona, albero. Quando rievocate il passato, invece, il pubblico deve vedere attraverso le vostre parole. Mi è piaciuto molto, ad esempio, il gesto a spirale che Alexandra fa con il braccio per parlare del Guggenheim, perché non le viene in mente il nome del museo. Chiunque conosca il Guggenheim sta lì, in quel momento.

Dobbiamo ancora un po’ lavorare su questa cosa qui. Sicuramente, rispetto a Mr Green è un’opera meno complessa. Lì ci sono più colpi di scena; c’è un po’ di tutto. Manca un duello ed un avvelenamento e siamo al completo, il tutto nel giro di dieci-dodici quadri. Un Autunno di Fuoco è una cosa un po’ diversa. Non è nemmeno lunghissimo, perché tutto si svolge nell’arco di un’ora, l’ora che i due fratelli danno a Chris per convincere la madre ad uscire di casa prima di chiamare la polizia.

Succede spesso, a teatro, che in pochi minuti accadano eventi memorabili. Pensa a Rodolfo e Mimì che in un solo atto della Bohème si incontrano, si piacciono, escono insieme e si promettono amore.

Glauco Mauri diceva che il tempo teatrale è relativo. Guarda Goldoni: il Cavaliere la mattina odia la Locandiera e il pomeriggio ne è innamorato, neanche lei avesse messo un filtro d’amore nella sua zuppa. Oppure Lady Anna, nel Riccardo III di Shakespeare, che in due pagine passa dall’odio all’amore.

A proposito d’amore, esco ancora una volta dal teatro, come ho fatto per la rappresentazione della vecchiaia, e raggiungo Maximilian. Cos’è l’amore, per te?

Mmh, domanda impegnativa. Sicuramente posso dirti che senza amore, senza empatia, senza condivisione la vita, per me, non avrebbe senso. Paragono l’amore alla musica: non è tangibile, non è visibile, però rapisce. Mi piace farmi rapire dall’amore. Ogni forma d’amore; non solo l’amore per le persone, ma anche per il lavoro, per la bellezza, per l’arte, per la musica. Ecco, torna la mia musica. La amo con tutto me stesso. Una delle più belle espressioni d’amore, per me, è quando, al mattino, mi sveglio nella mia tana colorata, piena di oggetti, ascolto musica, apro la finestra e vedo il sole, perché sono metereopatico e patisco il brutto tempo.

Torniamo all’amore …

Io sono perennemente innamorato di tutto e di tutti, ma il lavoro che faccio mi rende un gatto randagio. Conosco centinaia di persone ed alcune di esse vorrebbero adottarmi. Ma il gatto, come sai, è un animale indipendente, non ama le costrizioni e non accetta di essere ammaestrato. Quando non si trova bene con un padrone lo cambia, ammesso che un gatto abbia dei padroni

Non ne ha, infatti.

Ancora oggi non so come relazionarmi con questa cosa. Non è che mi faccia paura sentirmi posseduto; anche io, a mio modo, sono possessivo; però penso all’esempio che ho avuto nella vita, a mia madre che mi ha detto: “Ti amo con tutta me stessa, però vai dove devi andare e sii felice”.

A sinistra, baby Maximilian Nisi con sua madre – a destra, con Milena Vukotic sua “madre” in “Autunno di fuoco”

È stata meravigliosamente Madre, direi.

Come ti dicevo poc’anzi, ancora oggi, pur vivendo lontano da casa, ho con lei un legame fortissimo.

Lo stesso accade a Chris ed Alexandra.

Un bell’intreccio tra vita e teatro!

È vero anche, però, che l’amore di una madre è molto particolare. L’amore, in una coppia, non può toccare l’altruismo estremo di quello materno o di quello amicale. Ciò non toglie che bisogna imparare a starsi accanto senza pensare di possedere la persona amata.

Credo che, oggi, esista una grandissima incapacità a provare anche solo un sentimento semplice di solidarietà, di condivisione. L’amore è anche quello. Potrà sembrarti assurdo, ma, se mi dessero l’Oscar e non avessi una persona, o un gruppo di persone, con cui condividerlo, proverei sicuramente meno gioia. Purtroppo, in questa società, l’amore è un sentimento sacrificato; sembriamo incapaci di instaurare legami autentici.

C’è una forte tendenza a schermarsi. L’amore ti denuda e non è facile convivere con l’idea di essere inermi di fronte alle aggressioni che ci circondano.

Me ne rendo conto e mi dispiace moltissimo per chi vive queste aggressioni, ma, quando incontri una persona che non ti vuole aggredire …

… chiudersi non ha senso.

Trovo che sia un peccato, quanto meno. È un modo depauperante di vivere. Io so solo che, nel momento in cui entro in relazione con una persona che ha degli schermi, delle chiusure, a me viene spontaneo di chiudermi a mia volta; ho bisogno di proteggermi, perché non conosco limiti. Sono una personalità compulsiva. Ho smesso di fumare, perché io non fumavo, ma strafumavo; ho smesso di mangiare dolci perché a me i dolci piacciono e li stramangiavo. E in amore sono sempre stato bulimico.

Due balconi famosi del teatro: ti senti più Cyrano sotto il balcone di Rossana, o Romeo sotto quello di Giulietta? Non ne faccio una questione di età, ovviamente!

Io ho sempre pensato che in Romeo e Giulietta il personaggio vincente fosse Mercuzio, così brillante, esuberante e pieno di vita, un po’ come la musica di Mozart. Detto ciò, la scelta è tra Romeo, ossia l’incarnazione dell’amore puro e, al contempo, della semplicità, e Cyrano, forte della sua poesia, della sua sensibilità, della sua intelligenza anche se vittima di un amore segreto. Sono decisamente più Cyrano, il poeta che lotta contro i mulini a vento.

Ci avrei giurato!

Perché?

Perché sei anche molto cerebrale.

È vero, lo sono. Brava …

Per cui quel bacio che viene raccolto da Cristiano, ti fa soffrire, ma l’hai suscitato tu con la tua poesia, con i tuoi sentimenti e questo è già appagante

Mi piace entrare nella testa delle persone.

Appunto.

Cyrano è stupendo. Anche questo fatto che lui per tutta la vita non palesa i suoi sentimenti se non quando è troppo tardi per viverli.

In punto di morte, finge di leggere una lettera che sapeva a memoria, perché l’aveva scritta lui firmandola con un altro nome, e Rossana scopre la verità

Il tutto in un momento in cui ogni azione è ormai impossibile. Certi personaggi mi affascinano; mi piacciono le vite uscite da penne ispirate. Io mi sento sempre in una pièce, anche nella mia vita privata. In una pièce non drammatica, ma significativa. Mi piace. Amo il mondo, amo le persone. Tutte. Gli anziani, dai quali ho tanto da imparare, i giovani per gli occhi con cui scoprono il mondo. Rispetto a questo amore così travolgente, il sesso passa quasi in secondo piano.

Anni fa uscì un film in cui Al Pacino faceva la parte del Diavolo e diceva che il sesso era assolutamente sopravvalutato, perché sostituibile con una buona scorpacciata di cioccolata.

L’alchimia sessuale accompagna l’innamoramento, ma è transeunte. Poi subentrano altre cose.

Un sentimento più vasto, profondo …

Sì, l’amore! Un privilegio non così frequente da ottenere, soprattutto per noi attori, girovaghi.

C’è da dire, però, che conoscete molte persone, tanti luoghi, tante diverse tradizioni, tanti modi di essere e di pensare, rispetto a noi che, essenzialmente, ci muoviamo nell’ambito di un quartiere o, forse, due.

Questo è vero, ma aumentano le scelte e ogni scelta implica una rinuncia.

Tutti rinunciamo a qualcosa. Non puoi pensare alle rinunce che fai. Devi pensare a quello che hai realizzato, a quello che stai realizzando, alla tua strada. La vita è fatta di scelte.

Sliding Doors …

Però Sliding Doors è crudele. Quella delle due che riesce a prendere la metro e coglie il compagno con l’amante, è quella che elabora il lutto per prima e per prima si costruisce una vita appagante, un bel lavoro, un nuovo amore, ma è anche quella che muore, alla fine.

Muore? E come? Non me lo ricordo.

Ha un incidente. L’altra, invece, continua il suo percorso di inconsapevolezza e sacrificio prima di staccarsi dal narcisista fedifrago, ma, alla fine, sopravvive ed incontra comunque l’amore vero. Il messaggio sembra quello di dover necessariamente attraversare il sacrificio per avere la ricompensa.

Forse, però, è meglio un giorno da leone che cento da pecora.

Massimo Troisi ne proponeva cinquanta da orsacchiotto; io, meno realisticamente, ne pretendo cento da leone.

Un vecchio adagio dice che ci vorrebbero due o tre vite. In realtà non ne basterebbero duecento.

Facciamo un migliaio.

Non siamo mai paghi di nulla. A volte ho paura di non avere il tempo di fare tutto ciò che sento di voler fare. E se stessi scrivendo sull’acqua e nulla rimanesse delle mie parole?

No, Maxi, tu non scrivi sull’acqua. Non te lo dico con condiscendenza o falsa cortesia. Io sono come il Matto del Re Lear: dico sempre quello che penso. Sei una persona incisiva, sia sotto il profilo umano che professionale.

A volte mi sento sulla soglia di porte significanti; in bilico tra due pensieri, due modi d’essere. L’11 e il 12 ottobre sarò a Bergamo, al Festival Fiato ai Libri, cui partecipano molti noti attori per alcuni reading. Mi è stato chiesto di trarre la mia prima lettura da Le Libere Donne di Magliano di Mario Tobino, un libro molto bello sulla legge Basaglia; per la mia seconda lettura, invece, mi hanno chiesto di scegliere un libro di Hermann Hesse. Tendenzialmente mi piacciono tutti, ma ho scelto …

… Narciso e Boccadoro.

Esatto! Ho selezionato i primi cinque capitoli; ho scritto dei piccoli riassunti di raccordo; quindi leggerò altri capitoli. Il tutto accompagnato dalle musiche di Stefano De Meo. Non so che effetto mi farà rileggere questo libro con gli occhi e la sensibilità di oggi, ma so che io nasco Narciso, che si chiude in convento e conosce la vita a livello filosofico, ma vivo da Boccadoro che cerca il punto di partenza e di arrivo, sporcandosi le mani e senza risparmiarsi.

****

Sull’eco di queste parole che vedono Maximilian come un perfetto coacervo di contraddizioni, traccio a malincuore il mio “passo e chiudo”. Il tempo è volato. Ci siamo detti molte altre cose, ovviamente; abbiamo progettato un lavoro teatrale insieme; abbiamo riso, scherzato e parlato di cose serie; abbiamo bevuto il caffè e mangiato i biscotti che la dolcissima Katia ci ha portato; abbiamo fotografato le ali di Niche. Maximilian mi ha mostrato il copione che sta studiando, con tutti i suoi appunti colorati e con il bozzetto del suo abito di scena.

Roberto Rossellini diceva di voler “scoprire gli esseri e le cose come sono, nella loro estrema semplicità”. Assomiglia molto al lavoro che facciamo io e Maximilian durante le nostre chiacchierate sul tutto. Un giorno, forse, le raccoglieremo in un libro e potrò inserire le parti che uno spazio giornalistico, pur molto generoso, ha comunque imposto di tagliare.

L’appuntamento è a Borgio Verezzi, i primi due giorni di agosto. Un Autunno di Fuoco. Buon teatro a tutti.

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