Borgio Verezzi. Prima nazionale di Un Autunno di Fuoco

La mia recente intervista a Maximilian Nisi, protagonista, accanto a Milena Vukotic, di Un Autunno di Fuoco di Eric Coble, intervista in cui abbiamo sviscerato i segreti dei personaggi e la genesi del loro agire, ha rappresentato la lunga premessa ad una serata particolare, la prima nazionale di questa bella pièce in quel di Borgio Verezzi, nell’ambito di un prestigioso Festival Teatrale, appuntamento fisso dell’estate ligure, ma soprattutto del migliore teatro italiano. Profumi fruttati nell’aria salmastra, sole, mare, arte. Ho affrontato qualche ora di treno per assistere a questo spettacolo, mi sono immersa nel caldo torrido che, in questi giorni, ha privato della brezza marina persino la Liguria. Ne è valsa la pena, però.

Il teatro, allestito nella splendida piazza S. Agostino, accoglie il pubblico sotto una Luna brillante e un’idea luminosa di Marte nel cielo stellato. La scena allestita sul palco sembra una grande aiuola attorno ad un albero; un grande, magnifico albero autunnale, con le sue foglie rosso fuoco, che permea l’essenza di questa favola metropolitana, di questo spaccato di vita newyorkese, di questo incontro e scontro verbale tra madre e figlio, tra vecchiaia e giovinezza, tra saggezza ed impeto, tra paura e paura. Sì, perché la vita, l’amore, a volte, fanno paura; in modo diverso a seconda dell’età, ma fanno paura.

La storia è semplice: una donna anziana non accetta la vecchiaia che ingrigisce il suo corpo e la sua mente e rifiuta di andare a vivere in un pensionato, come vorrebbero i figli; si barrica in casa, minacciando di far saltare il palazzo con bombe artigianali. L’unico figlio che riesce a parlare con lei è Chris, che si arrampica sull’albero ed entra dalla finestra. Passato e presente si fondono nel loro intenso dialogo.

La grande luna gialla di una canzone di Tom Waits rappresenta il ricordo di una vita libera, di un qualcosa che è difficile da dimenticare, impossibile da nascondere: “Grapefruit Moon, one star shining it’s more than I can hide”. Capita. Il ricordo del passato, di ciò che eravamo bussa prepotente alla porta di ciò che siamo diventati. A volte innalza scudi invisibili dietro i quali ripararsi; altre volte genera istinti di fuga. Non conto le volte che succede a me. Ebbene, il passato non riescono a nasconderlo nemmeno Alexandra e Chris, i due protagonisti della pièce, ossia i bravissimi Milena Vukotic e Maximilian Nisi.

Quella narrata in Un Autunno di Fuoco è una storia che questi due grandi attori elevano a paradigma, a messaggio universalizzato, portando il pubblico ad immedesimarsi, a ridere, a gioire, a soffrire, a credere. Ecco, sì, a credere nella verità scenica.

Sono una giornalista, ma, in un’altra parte della mia vita, faccio l’avvocato. Nelle aule di giustizia parliamo spesso di “verità processuale”, che non corrisponde alla realtà in tutte le sue sfumature, ma solo a ciò che le prove evidenziano. Pirandello ci ha insegnato che le verità sono tante anche nella vita di ogni giorno. Ognuno ha la sua e la vive come fosse l’unica: convinzioni, sentimenti, impressioni ed interpretazioni del gesto altrui nell’ottica del proprio. È ciò che accade anche a teatro, quando gli attori sono bravi. La “verità scenica” diventa realtà per chi guarda, così come per chi recita. La forza dell’interpretazione.

Mi sia consentita un’assonanza mnesica personale: nel vedere Un Autunno di Fuoco mi è tornato in mente mio nonno; ho sentito, in quella parte di me che custodisce il passato, le sue sagge parole all’ombra delle quali, nei primi nove anni della mia vita, è cresciuta la piccola me, dotata di un’anima desiderosa di imparare il mondo. Era un appassionato di teatro e di opera lirica e mi ha portato a tantissime splendide rappresentazioni; sapeva lavorare il legno e con lui ho imparato ad usare il traforo; era uno scacchista eccellente e nella sua voce si perde il ricordo dei miei primi arrocchi; aveva fatto tre guerre ed i suoi racconti dal fronte erano spaccati di vite e cuori e paure e amor patrio e amicizie e morte e vita. Qualcosa che non si leggeva nei libri di scuola.

Sedeva sulla sua poltrona; io pendevo dalle sue labbra. “Dai, nonno, racconta ancora”. Una poltrona. Per me era il trono di un re. Accoglieva un uomo anziano, ossia un uomo che era stato tanti uomini, che aveva attraversato tante vite. Una poltrona. La stessa che ho visto in scena a Borgio Verezzi, nell’allestimento di Un Autunno di Fuoco. La poltrona dalla quale emerge, in tutta la sua forza, l’urlo titanico di una donna che vuole sentirsi padrona della sua vita, della sua vecchiaia; una donna impaurita ma anche mordace, vera, incisiva, bella. Sì, bella. Milena Vukotic è assolutamente bella: grazia e forza, lineamenti delicati e parole di fuoco. È energia pura. Si muove con grazia sulle modulazioni di tono che disegnano presente e passato; supera la barriera delle parole per comunicare con gli occhi, con il volto, con tutto il suo corpo in un continuum narrativo difficilissimo; è abile nel far recitare persino la sua lunga stola che, impertinente, scivola sulla sua spalla, di quando in quando, ed obbediente la segue, come uno strascico regale, in ogni suo movimento; è una donna che si trasforma in un vortice, una spirale di fiamma e di passione, e muta, come mutano i tasselli di quel grande puzzle che chiamiamo vita, una donna che danza con il suo Chris ridendo, ma che ha gli occhi velati di paura e di tristezza quando sfiora con le mani muri invisibili.

Non da meno Maximilian Nisi. Non voglio dilungarmi nel lodare, come ho più volte fatto, la sua capacità di immedesimarsi nei personaggi che interpreta, nel suo entrare in scena col vigore di chi è in grado di incidere una pietra invisibile entrando in chi lo guarda e rimanendovi. Un suo lungo monologo ha strappato un applauso a scena aperta. Meritatissimo. Ce ne sarebbero stati altri da fare, ma, a volte, il pubblico ha timore di interrompere la recitazione. In quel monologo si percepisce il dramma non già della scena raccontata, di quel che Chris ha visto, dramma volutamente narrato come fatto di cronaca, quasi caratterizzato da una glaciale sequenza di atti, ma di come quell’episodio è stato introiettato dal personaggio. Chris traspare da dietro il dramma che narra e, via via, la sua figura si fa più intensa: scelte giuste e sbagliate, inerzia e desiderio di movimento; una seconda chance dietro l’angolo da cogliere prima che il niente la vanifichi. Armata, come sempre, del mio binocolo da teatro, ho osservato attentamente il volto di Nisi durante quel monologo: era teso, vero, appassionato, impaurito, duro e commosso al contempo; le labbra si serravano, durante le pause, quasi a voler tenere dentro le parole che lo spaventavano, parole che uscivano loro malgrado; la fronte era corrucciata quasi a cercare con gli occhi il ricordo.

Felice, a mio parere, la scelta del regista, Marcello Cotugno, di far entrare la platea in scena attraverso una chiamata diretta, quella dell’attore che, in alcuni momenti, tra i quali il monologo di Chris, si rivolge al pubblico. Anche la Vukotic è magistrale in questo passaggio dalla scena alla platea con parole intime ed intense che tratteggiano il suo personaggio. È come se gli attori allungassero la mano fino a toccare quella di chi li ascolta, stabilendo un contatto, allestendo una confessione, uno spazio di sincerità. Di fronte alla sincerità non c’è scudo psicologico che tenga; la sincerità è meravigliosamente disarmante e coinvolgente. Quel racconto diventa il racconto di tutti.

Anche in Nisi il linguaggio non verbale è prepotente protagonista accanto al testo; scandisce il ritmo della narrazione con una musicalità intrinseca al gesto. E’ bravissimo nel sottolineare con i movimenti la sua storia, una storia di gentilezza, di amore, di rabbia, di rancore. Persino la sua borsa ha un ruolo recitativo: lo segue e, quando gettata in terra veementemente, rappresenta il tamburo della sua danza scenica; persino il fumo che si leva da una pipa rappresenta un volo nebuloso di pensieri condivisi. A volte, esprime il suo essere figlio con sguardi di un’intensità commovente, che sembrano emergere dal profondo dell’anima.

Il dialogo tra Alexandra e Chris, la loro storia, i loro sentimenti e risentimenti sono una strada teatrale che è davvero bello percorrere.

Io l’ho percorsa a Borgio Verezzi e lo farò ancora a Roma, al teatro Ghione, dove Un Autunno di Fuoco sarà in scena dal 16 al 25 novembre. Farà freddo, allora. Almeno così spero. Sarà comunque lontano il ricordo di Borgio Verezzi; lontano ma indelebile. Forse, nel rivedere Alexandra e Chris, mi pervaderà ancora il profumo del mare ed i colori di quel bel borgo ligure; forse rivedrò la luna argentea che ha illuminato la terrazza di un ristorante dove ho avuto il privilegio di cenare con la Compagnia, con l’organizzatore del Festival, Stefano Delfino, e la sua consorte, con la deliziosa Livia Amabilino, in rappresentanza della produzione del Teatro La Contrada di Trieste; forse avrò davanti agli occhi le fotografie che non ho scattato e che, già solo per questo, riposano sull’anima e sono immagini incancellabili e vivide di una serata di grande teatro e di amabile compagnia.

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