Il Cammino della Vita. L’incontro con Padre Ernesto sul Cammino del Nord verso Santiago

Guardatelo negli occhi: venite in Cantabria a passare qui una notte e scambiateci due chiacchiere. Per ascoltare il fluire della sua voce nel mare calmo della quiete. Per nuotare in questi laghi profondi e sicuri al cui centro ridono le pupille brillanti di uno spirito senza età.

Ha ottant’anni Ernesto, fa il prete, ed è anche un operaio. Con un passato da minatore in Venezuela, insegnante per lungo tempo in un villaggio di analfabeti da cui ha appreso la vera cultura “della natura, della solidarietà e della forza mentale”, attivista nel Movimiento Ciudadano in un quartiere di periferia di Santander nel 1976 per cui si è fatto pure un po’ di prigione, esperienza che ha considerato un premio visto che di mestiere ha scelto di stare vicino ai prigionieri e agli schiavi del nostro tempo.

“C’è un detto spagnolo che dice: il luogo dove si realizza l’ingiustizia, è il giusto posto per un uomo giusto”, mi racconta con la gioia dei suoi occhi sorridenti.

Trentasette anni fa quest’uomo straordinario decide di far fiorire il più sensazionale Albergue che si possa incontrare sul Cammino verso Santiago, proprio nel giardino di casa sua. Nessun altro luogo può raccontare meglio lo spirito di questo viaggio, questo è sicuro, e il fatto che la sperduta Guimaes rappresenti la tappa obbligata del Norte testimonia l’enorme popolarità affettiva di cui padre Ernesto gode in tutto il mondo, senza averla inseguita in alcun modo.

Ernesto Bustio

Qui sulla via del Nord, Ernesto Bustio è il creatore di un’utopia, che si chiama La Cabaña del Abuelo Peuto. Più che un ostello per i pellegrini, questo è un villaggio della vita, coltivato intorno alla casa dov’è nato, in un piccolo pueblo a metà strada tra il mare e le montagne.

Nel 1981, grazie a un gruppo di amici volontari convenuti dai villaggi vicini e da Santander, Ernesto decide di ospitare i primi pellegrini. Dati alla mano osserviamo cosa è successo negli ultimi 20 anni: il sacerdote-operaio tira fuori un pannello che mostra l’impressionante curva di crescita dai 201 ospiti del 1999 fino alla cifra impressionante di 11.284 camminatori nel 2017, venuti a gustare lo spirito del cammino custodito in ogni amorevole dettaglio di questa casa antica centodieci anni. E che oggi è divenuta una proprietà collettiva e solidale, che alla morte di Ernesto verrà venduta per ricavarne fondi da spendere in opere di bene.

Stasera siamo 93 pellegrini a soggiornare, nessuno si sente addosso la sensazione di essere ospitato nella casa di un prete. Questo luogo non ha alcuna ispirazione religiosa né politica, questo luogo rappresenta una semplice filosofia: quella del Cammino della Vita, dove ci ritroviamo camminando verso il traguardo di Santiago per scoprire a ogni passo un ulteriore anello delle nostre catene individuali. E renderci consapevoli del giogo che la società muove su di noi, attraverso molteplici rappresentazioni di invisibili fili, i cui burattinai si chiamano “denaro, mala politica e mala religione”.

Qui tutti possono essere ospitati, dunque a differenza della gran parte degli Albergue che in alta stagione manifesta il problema del tutto esaurito lasciando i camminanti ai loro destini sotto un cielo di stelle, Ernesto non pone limiti al numero di ospiti, che lo scorso anno ha toccato le 148 presenze in una sera soltanto, distribuite nei dodici dormitori grandi e piccoli, nelle tende, nel “museo del pellegrino”, nelle Biblioteca, non importa in quali altre sale che compongono questo villaggio di pace, l’importante è garantire i tre diritti fondamentali: “un tetto sopra la testa, una doccia a lavare via la fatica del giorno, una cena calda prima di abbracciare il cuscino”. Al “ben di Dio” non corrisponde un prezzo fisso, la donazione è affidata alla responsabilità degli avventori, che nell’adunata fatta nella grande sala circolare alle 19:30 in punto, prima della cena collettiva, apprendono che tutte le donazioni servono a finanziare non solo il mantenimento dell’Albergue, ma soprattutto i progetti sociali che Ernesto sostiene: una comunità di 27 bambini da scolarizzare in Guatemala e un’attività sociale per i detenuti della vicina prigione di Santoña, che imparano a coltivare fagioli dalla cui vendita traggono sostegno proprio i 27 bimbi guatemaltechi. Ma poi c’è anche la realtà di un campo estivo per i figli nati nel deserto di profughi giunti qui in Spagna è ispirato da Steve, un nigeriano che si è fatto cinque anni di galera solo per aver tentato con poca fortuna di arrivare nella penisola iberica. Le risate e le canzoni in tante diverse lingue intonate dai bimbi sahariani arrivano fino a noi, il campo si svolge proprio nel prato di fronte e l’allegria ha il suono d’una  vacanza di chi non ha mai conosciuto vacanza in vita sua.

Padre Ernesto non riceve invece sostegno economico né dal Governo, né dal governo locale, né dalla Chiesa. Gli unici sostenitori siamo noi pellegrini, e gli amici e volontari che lo incoraggiano costantemente da tutto il mondo. Però il re Juan Carlos gli ha fatto avere nel 2009 una medaglia d’oro al “merito del lavoro”.

Il merito grande che noi viandanti riconosciamo a quest’uomo dalla forza gentile è di farci comprendere la nostra stessa storia e la sua morale: iniziamo il cammino come semplici pellegrini zaino in spalla alla volta di un’avventura, ma entriamo nel Cammino con la Ci maiuscola solo quando apriamo gli occhi su ciò che veramente c’è: uno sconosciuto che ha bisogno di mangiare più di te il tuo prezioso bocadillo, un compagno con un piede da curare col tuo ultimo compeed.

Questa storia ce la racconta proprio Ernesto dopo cena nel posto più prezioso di tutta la Cabaña, a tutti noi che siamo lì ad ascoltarlo come bimbi intorno al nonno dalla bianca barba, bocca aperta per nutrirci d’una favola vera della buonanotte. Siamo nell’Ermita, una sorta di maloca affrescata da murales che rappresentano il succo stretto del Cammino della Vita, che in pochi pannelli racconta il passaggio dalla schiavitù inconsapevole della vita quotidiana alla liberazione individuale e collettiva nella metafora del camminare fianco a fianco. Camminare come “fine della passività”, perché “per chi cammina c’è sempre un’alba”.

Salutiamo Padre Ernesto facendo colazione sui grandi tavoli della sala principale, in sottofondo l’Autunno delle Quattro Stagioni di Vivaldi. Resta solo una domanda da fargli, banale forse, ma insomma gli fa fatta: gli chiediamo il modo migliore per poterlo aiutare. Invece di soldi, che certo sono importanti, ci risponde che la prima cosa che coma è l’aiuto volontario: per chiunque voglia venire a dare una mano qui, c’è tanto lavoro da fare tutto l’anno. Indispensabile però aver compreso l’esperienza del Cammino della Vita: indispensabile aver fatto almeno una volta una vuelta fino a Santiago. Ed è per questo che tanti ragazzi che danno una mano ora, come la giovane Elena Scuro che viene da Lecco, tornano alla Cabaña del Abuelo Peuto dopo essere passati di qui e aver compreso il significato reale dell’esperienza: la trasmutazione del cammino ufficiale, il cammino fatto di chilometri, di sudore, di vesciche, nel cammino spirituale, che è quello degli incontri finalmente a occhi aperti, di ascolto a cuore proprio aperto. Perché questa esperienza individuale possa offrire i suoi migliori frutti al servizio di un progetto sociale, l’utopia così prossima alla realtà della condivisione.

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