L’importanza di essere ridicoli

Ognuno di noi nel profondo di sé conserva un’immagine ideale. Non rappresenta quello che siamo, ma quello che vorremmo essere. Impieghiamo la maggior parte della nostra vita a realizzare quell’immagine ma più ci avviciniamo più questa si rivela inafferrabile, come la felicità. Potremmo pensarla come uno specchio colpito dal sole. Abbaglia, ammorbidisce i contorni delle cose, cancella i difetti. Dà l’illusione della perfezione ma non dura più che un istante. L’attimo successivo ecco che ci sentiamo di nuovo terribilmente sbagliati. Ridicoli e impotenti in un mondo insidiato dagli imprevisti, dal dolore e dalla noia. 

Charles Baudelaire per riferirsi alla noia usava la parola spleen, che non è lo stato d’animo dello scolaretto che sbadiglia a lezione. È un malessere esistenziale che imprigiona lo spirito in un’accidia fatta di inquietudine e malinconia. Il padre del decadentismo rintraccia questa condizione nell’incapacità del poeta di adeguarsi al mondo reale. Nel XIX secolo la classe borghese, con il suo prepotente senso pratico, ha sminuito il ruolo della poesia come strumento per guidare la società. Improvvisamente il poeta si è ritrovato perso, senza una collocazione. 

Tirato giù a forza dal suo iperuranio, vede cadere la sua aureola nel fango e resta con il capo scoperto come chiunque altro. Ma si sente più ridicolo degli altri perché per cogliere i grandi concetti che reggono la realtà non ha mai davvero vissuto la parte più meschina della quotidianità e non ha mai imparato a destreggiarcisi. È come il protagonista di Albatros, componimento della prima sezione di I fiori del male, intitolata non a caso Spleen e ideale

Gli albatri sono uccelli di mare che hanno l’apertura alare più grande del mondo. Volano alto, percorrono lunghissime distanze, «seguono, pigri compagni di viaggio, le navi in volo sugli abissi amari». La poesia si apre sui loro antagonisti, i marinai che per divertimento catturano gli albatri e li deridono. Essi sono il simbolo della nuova società, quella che secondo Baudelaire ha relegato la poesia nella sfera del diletto e dell’inutilità. Il declassamento è rappresentato proprio dall’albatro, «re dell’azzurro» reso un essere impacciato che «strascina pietosamente accanto a sé le grandi ali bianche come se fossero remi».

E «il poeta è come lui, principe delle nubi che sta con l’uragano e ride degli arcieri; esule in terra fra le grida di scherno, le sue ali gigantesche gli impediscono di camminare». Il cielo da cui il poeta-albatro è caduto rappresenta l’ideale, la nave dove i marinai lo deridono e lo maltrattano è il regno dello spleen (in questo caso più simbolo di disgusto che di noia). Tuttavia è interessante notare che la bruttezza e la comicità dell’albatro non dipendono solo dalla derisione, ma dal fatto che il volatile viene visto da vicino. 

L’opposizione vicino-lontano ricalca perfettamente il contrasto tra ideale e spleen, alto e basso, solenne maestosità e comicità, ma ci porta a dubitare su quale sia effettivamente il polo positivo e il polo negativo della poesia. L’albatro della sfera ideale è splendido ma è anche lontano, sfuggente, visibile solo dal suo lato migliore. È come il poeta che investito di un ruolo importante si eleva, crea una distanza tra sé e il resto del mondo e in questa distanza nasconde la propria componente (tragi)comica. L’albatro caduto nello spleen invece è brutto e indifeso, ma è più vero. Estratto dalla sua immagine ideale sembra perdere tutta la sua poeticità, invece acquista un valore poetico diverso, più controverso ma non meno affascinante.

Fonte foto: joylenton.com

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