L’epidemia, la paura e la colonna infame

Il 31 gennaio 2020 un uomo si accascia davanti a un negozio di mobili e muore. Nessuno lo soccorre, il cadavere resta a terra per ore. Può sembrare una crudeltà, ma siamo a Wuhan, la città fantasma in cui tutti si nascondono per evitare la nera mietitrice che — arrivata inaspettatamente sotto forma di virus — cammina per strada dimenando la falce a casaccio. Chiunque può essere colpito, chiunque può ammalarsi, e ognuno cerca di difendersi come può. Non è egoismo, è istinto di sopravvivenza che nella sua totale irrazionalità non lascia spazio alla filantropia. Tutta colpa del Coronavirus, un nome senza volto che viene percepito come un alieno arrivato all’improvviso, di cui ogni giorno si sa sempre un po’ di più, ma non ancora abbastanza.

Il mistero dietro la malattia

Ogni volta che scoppia un’epidemia le domande sono sempre le stesse: cos’è? Da dove viene? Come si fa a fermarla? Più o meno sono le solite che ci poniamo sul senso della vita (Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?), i quesiti che sovvengono quando ci troviamo davanti a qualcosa che sembra troppo grande per essere compreso. Il nemico sconosciuto è quello più gigantesco e invincibile. La malattia è immensa proprio perché non ha corpo, è visibile solo nei suoi effetti e si impossessa delle persone, della loro vita. Solo sentirne l’eco lontano scatena la psicosi: la collettività si fa prendere dall’ansia e già si immagina decimata, trasformata, degenerata. Si cerca un colpevole quasi con la stessa determinazione con cui si cerca una soluzione. È così che l’uomo finisce per essere dominato dalle «passioni pervertitrici della volontà», come direbbe Alessandro Manzoni.

L’accusa

La tematica della psicosi collettiva è talmente cara all’autore di I promessi Sposi da costruirci sopra un’intera opera: Storia della colonna infame. Nata come appendice del Fermo e Lucia nel 1821 e pubblicata come un saggio storico a sé stante nel 1840, parla della terribile pestilenza che ha colpito Milano nel 1630.

Tutto comincia con la signora Caterina Rosa che «trovandosi, per disgrazia, a una finestra d’un cavalcavia […] vide venire un uomo con la cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale […] pareva che scrivesse. Le diede nell’occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia delle case […] e che a luogo a luogo tirava con le mani dietro al muro». L’uomo con la cappa nera è Guglielmo Piazza e la testimonianza di Caterina Rosa è fondata su una visione della realtà distorta dalla paura e dall’ignoranza. È in corso una terribile epidemia, un morbo oscuro che inizialmente viene definito febbre pestilenziale e che ci mette del tempo per essere identificato con il suo vero nome: peste.

Nel delirio generale scatta la caccia agli untori (una vera e propria caccia alle streghe, dato che la peste viene da un batterio presente nelle pulci ospitate dai roditori che all’epoca scorrazzavano a frotte per la città). Guglielmo Piazza è sfortunato. La testimone lo vede sfiorare un muro nei pressi di Porta Ticinese, dove poco dopo viene trovata la sostanza giallastra creduta origine della pestilenza. La notizia si diffonde, passa di bocca in bocca. Quando arriva alle orecchie dei magistrati l’indagato diventa automaticamente colpevole. La stessa sorte tocca a un barbiere, Gian Giacomo Mora, accusato di spargere la peste con unguenti a base di olio e petrolio. 

Il processo

Poco dopo gli arresti inizia il processo. Gli interrogatori e le perquisizioni nelle case di Piazza e Mora non fanno saltare fuori nessuna prova schiacciante. Tuttavia i due popolani vengono dichiarati colpevoli lo stesso e condannati a finire sulla ruota. A questo punto Manzoni grida allo scandalo, soprattutto perché don Giovanni Gaetano de Padilla — figlio del comandante del Castello di Milano e uomo decisamente più facoltoso degli altri due — è l’unico a essere assolto. Sono i poveri e gli indifesi i capri espiatori perfetti. Tutti vogliono credere nella loro colpevolezza anche a costo di chiudere gli occhi davanti all’evidenza. «Purtroppo, l’uomo può ingannarsi […] il sospetto e l’esasperazione, quando non siam frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli gli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventurate affermazioni» dice l’autore con parole dolenti, arrivando dritto al cuore dell’opera.

La colonna infame

La colonna infame — lo dice il nome stesso — è il simbolo di un atto vergognoso. Costruita sulle macerie della casa-bottega di Mora, nasce per ricordare a tutti l’azione scellerata degli untori nei confronti del popolo di Milano. È un modo per scaricare la colpa di una tragedia senza colpevoli, per esorcizzarla, per limitare la psicosi collettiva mostrando che le istituzioni stanno facendo qualcosa di concreto per risolvere la situazione. Ma è tutta un’illusione che Manzoni si impegna a smascherare a due secoli di distanza dagli eventi narrati. Dopo l’impresa romanzesca dei Promessi Sposi, lo scrittore sceglie il vero storico, la visione lucida e razionale dei fatti supportata da un intenso lavoro di ricerca: «Non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero esser sottintese, sono invece dimenticate; e dal non dimenticare questa dipende il giudicar rettamente quell’atroce giudizio».

Isolamento e solitudine

Ma in fin dei conti la colonna è proprio la testimonianza di questo atroce giudizio, nato dalla follia di un popolo allo sbando e dalla volontà dei magistrati di trasformare due innocenti in mostri. In realtà, gli unici mostri della vicenda sono quelli generati dal sonno della ragione. L’irrazionalità che riduce il grado di civiltà della società e porta le persone a chiudersi. Ripeto, non è crudeltà, è istinto di conservazione e paura. Nessuno vuole essere contagiato, nessuno vuole che il suo cadavere sia caricato sul carro di un monatto e gettato nelle fosse comuni. E allora ci si isola, si muore da soli e i cadaveri restano abbandonati per ore finché un addetto non viene a rimuoverli.

Scrivi

La tua email non sarà pubblicata

Per inserire il commento devi rispondere a questa domanda: *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.