L’abisso di Jack London

Il modo migliore per conoscere le cose è starci dentro, sguazzarci, esplorarle dall’interno. Jack London questo lo sapeva bene. Nell’estate del 1902 decide di avventurarsi nei bassifondi londinesi travestito da marinaio caduto in disgrazia. E pensare che l’Inghilterra doveva essere solo una tappa veloce prima di salpare per il Sudafrica. L’inaspettata cancellazione del viaggio fornisce allo scrittore l’occasione di immergersi nella vita degli slums per ben 84 giorni. 

Un’esperienza significativa che darà vita a uno dei grandi capolavori londoniani: Il popolo degli abissi (titolo originale The People of the Abyss). Il libro verrà pubblicato per la prima volta nel 1903. È un romanzo d’inchiesta in cui la miseria dell’East End viene indagata dall’interno ma con lo sguardo lucido di chi lo vive da straniero. Nella premessa London dice di essersi approcciato alla realtà degli slums «con un atteggiamento mentale molto simile a quello dell’esploratore che si addentri in terre ignote». Infatti ci parla di un mondo sconosciuto, nascosto come polvere sotto un tappeto d’ipocrisia.

Portare alla luce la povertà che dilania mezza capitale significa incrinare l’immagine radiosa dell’Impero Britannico (all’epoca ancora impero coloniale più esteso del mondo). Un’operazione che per London rappresenta da una parte una prova di sopravvivenza, dall’altra una spinta propulsiva che smuove la sua indole ribelle e romantica. Dirà anni dopo: «Di tutti i miei libri, quello che amo di più è Il popolo dell’abisso. Nessun altro mio lavoro contiene tanto del mio cuore e delle mie lacrime giovanili quanto quello studio della degradazione economica dei poveri» 

La discesa nell’abisso

Il primo capitolo del romanzo si intitola La discesa. Discesa, abisso, bassofondo sono tutti vocaboli che rimandano al campo semantico della profondità. L’East End è un luogo sotterraneo pur non essendo sotto terra. La macchia scandalosa di una società che mira al progresso, sede di una popolazione sfruttata e invisibile. In una lettera agli amici George e Carrie Sterling London paragonerà l’East End a un’«umana voragine infernale». Voragine in cui per amore della verità è dovuto scendere seguendo un percorso messianico di discesa e risalita.

I riferimenti cristologici sono ricorrenti. D’altra parte i poveri dell’East End non si possono forse annoverare tra gli ultimi di cui parlava Gesù? Non sono forse loro la personificazione dell’artigiano «difforme ed emaciato» e della ragazza senza madre dalle dita ossute che — nella citazione di James Russel Lowell posta in apertura al libro — rappresentano l’immagine di Cristo ipocritamente adorata da chi nei fatti preferisce tenersi alla larga dalla povertà vera?

London prova una curiosità autentica nei confronti degli ultimi e sa che l’unico modo di comprenderli è diventare uno di loro. Così va dal bottegaio, sceglie un paio di pantalonacci di stoffa, una giacca malandata e il gioco è fatto. È una trasformazione che inizia dai vestiti, infiamma lo stomaco e finisce per fare a pezzi il cuore. Ma come potrebbe essere altrimenti davanti alle file fuori dai dormitori, ai bambini che ronzano intorno a un cumulo di frutta in decomposizione, agli ubriachi che affogano nell’alcool la loro disperazione? Come si può non restare segnati da una madre che tiene il figlio morto in casa per tre settimane perché non ha abbastanza denaro per seppellirlo? 

Un problema di civiltà

La gravità della testimonianza custodita in Il popolo degli abissi apre a una riflessione sul significato della parola civiltà. «Sarebbe bene […] rivolgere alla Civiltà una serie di domande, dalle cui risposte concludere se essa abbia fatto o no bancarotta. […] ha davvero la Civiltà migliorato la condizione degli esseri umani?». Paragonando l’inuit dell’Alaska e il cittadino inglese London fa notare che l’inuit nella sua primordialità ha un solo problema: soffrire la fame nei periodi di carestia. Al contrario, molti dei cittadini inglesi soffrono un’inedia e privazioni continue. London dà la colpa al sistema socio-politico britannico, dualistico e squilibrato come nell’appena tramontata epoca vittoriana. Lo considera fallimentare perché a una rapida crescita produttiva non ha fatto corrispondere un miglioramento delle condizioni di vita.

Denuncia una gestione ladra, «colpevole  di essersi indebitamente appropriata dei fondi della società» togliendo il pane di bocca a 8.000.000 persone per nutrire una classe dirigente ingorda. Non solo un’azione da punire, ma un vero e proprio peccato mortale che il tribunale dell’Umanità dovrebbe condannare, e anche Dio.

Ed ecco perché il libro si chiude citando La Sfida di Henry Wadsworth Longfellow: «Un esercito imponente e affamato ci assedia minaccioso,/che preme a ogni cancello della vita./I milioni di oppressi dalla miseria,/che una sfida lanciano al nostro vino e pane,/e tutti ci accusano di tradimento,/i vivi come i morti/[…] Laggiù, nell’accampamento della miseria,/Nel vento, nel freddo, nella pioggia,/Cristo giace, il grande Signore dell’Esercito,/morto nella pianura». 

Fonte foto: blogo.it

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