La parola come relazione e l’eredità da desiderare

Gli uomini sono esseri narrativi e le narrazioni esistono perché esiste il linguaggio. Le parole raccontano il passato, svelano le radici, ci ricordano che siamo parte di una grande Storia che dobbiamo a nostra volta continuare a scrivere. In un mondo in cui è facile convincersi di bastare a se stessi, il linguaggio ci rammenta quanto in realtà gli esseri umani siano interdipendenti, quanto nella parola “umanità” sia inscritta la parola “rapporto”. Dice Franco Nembrini nel testo introduttivo all’Inferno di Dante: «(Se) l’uomo è rapporto, è legame, è relazione con altro da sé, la parola che ne definisce la natura profonda, il dinamismo che lo muove e lo fa vivere, è la parola desiderio, che non a caso è la parola che meglio sintetizza la vita e perciò l’opera poetica di Dante».

La parola dunque è uno strumento che consente di sintetizzare la realtà, di strappare una definizione essenziale delle cose all’«inesauribile segreto» ungarettiano del reale. Quindi è anche azione, scavo in profondità. Ma una parola da sola non basta. Infatti — come lo stesso Nembrini mette in evidenza più volte — nella Commedia dantesca il termine desiderio è collegato a molte altre parole chiave che concorrono a chiarirne il significato più profondo. Libertà, misericordia, conoscenza, verità… Questo perché il linguaggio è una rete che si sviluppa in profondità e che, proprio come nei rapporti umani, trae la sua forza dalle connessioni. 

La mappa del linguaggio e la necessità dei maestri

Se ci si concentrasse sulle etimologie delle parole ci accorgeremmo che al linguaggio sottostà una mappa vastissima di significati interconnessi. Una mappa che non solo riporta alla luce il passato, ma aiuta nell’interpretazione del presente e dà indicazioni utili per il futuro. Una mappa impossibile da contemplare nella sua interezza ma di cui, come sapevano bene i simbolisti, è importante reperire anche gli stralci. Perché anche a partire dai frammenti possiamo immetterci nel reticolo di Leggi su cui si sostiene il mondo e imparare a orientarcisi. Tutto ciò senza dimenticare di assecondare il nostro desiderio più forte e più autentico, quello che traina l’esistenza. 

A partire dalle parole dunque, possiamo raggiungere  certamente un livello più profondo della conoscenza del mondo e di noi stessi. Tuttavia, ricordando che il linguaggio è uno strumento sociale, va da sé che questo viaggio non possiamo compierlo da soli. Abbiamo bisogno della testimonianza di chi ha già visto un po’ più in là rispetto a noi. Abbiamo bisogno di maestri, ovvero di rapporti umani che ci aprano alle relazioni tra i vari aspetti della realtà, a loro volta funzionali a chiarire la nostra relazione con il Tutto.

Il valore della testimonianza nella Scuola-Telemaco

Nel saggio L’ora di lezione, lo psicoanalista Massimo Recalcati auspica il passaggio tra la Scuola-Narciso (dove i ruoli sono confusi e il «sapere pret-à-porter» genera «anoressie mentali») alla Scuola-Telemaco. Nella Scuola-Telemaco la «testimonianza della forza della parola» torna al centro, scalzando il dominio attualmente incontrastato delle immagini. I ruoli tornano a essere distinti ma questa differenza non si ridisegna solo in termini «sterilmente antagonistici» come accadeva in passato. 

Come afferma Recalcati: «Non si tratta più di perseguire l’ideale dell’insegnante-padrone che sa dire l’ultima parola sul senso della vita, ma quello dell’insegnante-testimone che sa aprire mondi attraverso la potenza erotica della parola e del sapere che essa sa vivificare». Aprire, dunque, non definire. La testimonianza dev’essere la spinta ad un viaggio che l’individuo deve compiere con le sue gambe. La promessa che qualcosa da desiderare c’è perché c’è qualcosa da ereditare. La stessa promessa che muove Telemaco, figlio di Ulisse, che «si mette in moto, compie un viaggio sulle orme del padre assente. Compie il viaggio dell’ereditare in cui si realizza ogni ricerca degna di questo nome». 

Foto di Alejandro Serralvo Bermúdez da Pixabay

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