La nostalgia del signor G.

gaber__800_800Sono passati 10 anni dalla morte di Giorgio Gaber. L’Italia, quella che lo salutò nell’abbazia di Chiaravalle con oltre 10mila persone, lo celebra in vari modi.

Giornate a tema alla radio, speciali delle testate nazionali, e infine un libro proposto dalla stessa Fondazione Gaber insieme alla Mondadori: “G. Vi racconto Gaber”.

A raccontarlo è il suo alter ego artistico di una vita, Sandro Luporini, conosciuto nel ’59 e che ha accompagnato tutta la sua produzione artistica fino al postumo “Io non mi sento italiano”.

A convincerlo ad uscire dal suo riserbo è stata la figlia di Gaber, Dalia, ne nasce un racconto in prima persona plurale perché “Tra noi c’è stato un affetto, diciamo, irripetibile. Difficilmente si arriva a una comprensione così profonda che dura tanto”, i cui titoli dei capitoli sono i titoli degli spettacoli che portarono in teatro quando Gaber decise di passare dalla televisione ad una forma artistica che sentiva a lui più congeniale fondando quello che venne ribattezzato come teatro-canzone.

Gaber stesso raccontava così il passaggio: “La fine degli anni Sessanta era un periodo straordinario, carico di tensione, di voglia, al di là degli avvenimenti politici e non [politici], che conosciamo, e fare televisione era diventato dequalificante. Mi nauseava un po’ una certa formula, mi stavano strette le sue limitazioni di censura, di linguaggio, di espressività, e allora mi dissi, d’accordo, ho fatto questo lavoro e ho avuto successo, ma ora a questo successo vorrei porre delle condizioni. Mi sembrò che l’attività teatrale riacquistasse un senso alla luce del mio rifiuto di un certo narcisismo” e aggiungeva: “Le entrate erano sicuramente minori rispetto ai proventi derivanti dalla vendita dei dischi, ma guadagnavo abbastanza da non dover soffrire la scelta di campo. […] Rispetto al denaro, io penso che se si riesce a guadagnare una lira di più di quello che è necessario per vivere discretamente si è ricchi”.

In questo modo nasce il Signor G. “Il signor G è un signor Gaber, che sono io, è Luporini, noi, insomma, che tentiamo una specie di spersonalizzazione per identificarci in tanta gente”, e nascono quegli spettacoli di canzoni, inframezzate da monologhi e riflessioni, che tanto lo hanno fatto amare al pubblico.

Il teatro di Gaber era un teatro sofferto, meditato, il teatro di Gaber era la sua faccia: “Pur non avendo fatto nessuna scuola, sapeva comunicare con lo sguardo, con il tono, con i movimenti. La cosa che più lo caratterizzava era l’ironia fortissima. Ma bastava che facesse una piccola pausa, gettasse uno sguardo, e riusciva subito a trasformare il clima, passando a qualcosa di più intimo o addirittura di più drammatico. Era come se, ad un certo punto, dicesse al pubblico: fine della ricreazione, parliamo di cose serie”, così lo ricorda Luporini.

Eppure il libro non è una celebrazione, ma il semplice ricordo di una vita insieme, delle discussioni, dei dubbi, della nascita dei lavori, di quelle discussioni a Viareggio, dove Luporini faceva il pittore e Gaber andava in spiaggia con le Clarks, sula società, sull’uomo, sulla politica che hanno portato alla nascita di tanti spettacoli di successo.

Gaber fa ridere, ma è un riso profondo, è un riso amaro, la risata della riflessione su quel che si è perso, su ciò che siamo diventati, è una risata per questo sempre attuale. Alcuni lo hanno definito un anarchico per il suo rifiuto dell’omologazione, lo stesso rifiuto che lo portò ad allontanarsi dalla sinistra italiana, e dalla politica dei partiti di massa “L’appartenenza è un’esigenza che si avverte a poco a poco si fa più forte alla presenza di un nemico, di un obiettivo o di uno scopo”. Proprio dal senso di appartenenza promosso dai partiti Gaber rifuggiva in nome di valori, e di una morale, non imbrigliabili in alcun discorso precostituito, perché se “qualcuno era comunista perché era nato in Emilia” e qualche altro “perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche” c’era anche chi era comunista “perchè  credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri”.

Gaber non è catalogabile, è il nostro “gabbiano ipotetico” che continua a ripeterci: “L’importante è insegnare quei valori che sembrano perduti, con il rischio di creare nuovi disperati”.

di Claudia Durantini

foto: loschermo.it

1 risposta

  1. renato

    ricordo ancora il suo entusiasmo sul palco e la carica che riusciva a dare ed a prendere da un pubblico partecipante. Stupendo!!!!!

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