Il maestro Mosca e il diritto all’immaginazione

Anche in un caldo pomeriggio di luglio, con il mare davanti agli occhi e i piedi che affondano nella sabbia, può accadere di aprire un libro e incappare nella scuola perfetta. Non un bell’edificio con banchi nuovi e pareti immacolate, ma una classe di bambini tutti diversi che sotto la guida di un insegnante eccezionale intraprendono un percorso di crescita fatto di piccole e importantissime scoperte. Sono i bambini di Ricordi di scuola, romanzo autobiografico ambientato alla fine degli anni Venti e pubblicato nel 1940. Autore e io narrante è l’insegnante Giovanni Mosca, che oscillando tra aneddoti sprizzanti di ironia e episodi talmente drammatici da far cascare le lacrime, ci racconta della sua esperienza alla scuola elementare Dante Alighieri di Roma, delle vite piccole e preziose dei suoi alunni e degli adulti ingrigiti dal tempo che attentano alla loro fantasia. 

Il primo capitolo del romanzo si intitola Tornare maestro, ma avrebbe potuto benissimo intitolarsi Tornare scolaro. Fare l’insegnante nella scuola in cui è stato alunno porta Mosca a riscoprire il bambino che era. Quello che aspirava a conquistarsi il diritto di leggere i libri della bibliotechina e che cantava con gli altri scolari Fratelli d’Italia nel salone. Tornare in un luogo del passato ma anche rivivere il passato, questa doppia valenza fa del verbo tornare una delle parole chiave di Ricordi di scuola. L’altro termine fondamentale è ricordare poiché è nel solco del ricordo che il Mosca bambino e quello adulto si sovrappongono mescolando i loro sguardi. 

Un metodo rivoluzionario

Saper guardare il mondo con gli occhi di un bambino è ciò che rende il metodo educativo di Mosca efficace e, oserei dire, rivoluzionario. Come osserva Alfredo Barberis nella prefazione all’edizione del 1985: «Cerca di non dare voti, non boccia nessuno, critica il nozionismo, se la prende con i compiti in classe e con i temi che spingono gli scolari a scrivere delle piccole o grandi bugie». In tempi non sospetti mette in pratica i principi di una pedagogia che sarebbe sopraggiunta molti anni dopo.

Ma in fondo come si potrebbe saper stare dietro a una cattedra senza comprendere il punto di vista di chi vi sta davanti? Oggi un maestro che si pone questa domanda è da ammirare, all’epoca veniva considerato un sognatore senza spina dorsale. «Tu sei ancora un bambino e non lo sai. Tu, a furia di leggere Cuore ai tuoi ragazzi, credi ancora a Marco che va solo, a dodici anni, in America a cercare sua madre» gli dice il maestro Pagliani.

La scienza delle piccole cose utili

Pagliani è un insegnante vecchio e lamentoso che va a nutrire la schiera dei burocrati e frustrati che costellano la scuola. L’abitudine a un insegnamento fatto più di lettere morte che di conoscenze vive ha fatto sparire da tempo il bambino che era in lui. La sua aridità gli impedisce di comprendere l’importanza della scienza delle piccole cose utili portata da Mosca. Eppure è l’unica scienza che conta davvero per accompagnare la crescita degli scolari senza accelerarla.

«Io non facevo studiare poesie ai miei alunni. Insegnavo loro cose molto utili, ma senza che se ne accorgessero: portando un bel fiore, un giorno, in classe, e facendo lezione di botanica; […] prendendo spunto dal giro d’Italia li dividevo in due schiere, i partigiani di Binda e i partigiani di Guerra, e se volevano sapere chi dei due era il vincitore dovevano sommare i tempi rispettivamente segnati dai due corridori nelle varie tappe: così, per amore dello sport, imparavano a fare somma delle ore, dei minuti e dei secondi: cosa, altrimenti, terribilmente difficile»

L’importanza delle farfalle

Mosca parla molto ai bambini della natura, specialmente di insetti come mosche e farfalle. Quella delle farfalle è un’immagine ricorrente, simboleggia l’innocenza e la fantasia che caratterizza il tempo dell’infanzia. Un bambino che smette di meravigliarsi davanti a una farfalla colorata è un bambino che cresce troppo presto. Egli difficilmente potrà trattenere dentro di sé quel tanto di fantasia che basta per non diventare un adulto arido come il nozionismo di cui si è nutrito e  le persone che gliel’hanno impartito. 

Significativo è l’episodio del vecchio ispettore con gli occhiali d’oro che si scandalizza davanti ai disegni che ritraggono bambini dell’antica Roma mentre giocano con il cerchio e rincorrono le farfalle. Tuona: «non giocavano, o forse giocavano ma senza ridere, con piccoli elmi sulla testa e agitando le daghe». E aggiunge: «le farfalle in quei tempi non c’erano».

Diritto all’immaginazione

Durante il fascismo il mito della romanità si poneva come esempio di virilità, nessuno avrebbe mai pensato di associarlo al gioco e alla fantasia. Questa esaltazione della forza fisica — rappresentata tra le altre cose dalle marce che periodicamente avevano luogo nel cortile della scuola — irrigidisce ulteriormente un sistema scolastico già inflessibile di per sé. Ed è proprio contro questa inflessibilità sterile e omologante che Giovanni Mosca indirizza la sua polemica.

Con una scrittura dal tono bonario ma a tratti anche spietatamente ironico, conduce una battaglia in difesa del diritto all’immaginazione dei bambini. Diritto fondamentale per un’educazione che permetterà loro di essere persone migliori, più serene e più felici. Perché in fondo dovrebbe essere questo l’obiettivo primario della scuola: impartire una conoscenza viva che serva come strumento di realizzazione personale all’insegna della felicità. 

La lezione più importante

E allora ecco che dal legame tra il verbo tornare e il verbo ricordare viene fuori una terza parola chiave che è conservare. Conservare un barlume della potenza immaginativa che permette di dare valore alle piccole cose fondamentali della vita è la lezione che ogni maestro dovrebbe impartire. L’intento di questo libro è quella di risvegliarla anche laddove è sopita e invitare a ricercarla nei bambini di ogni tempo.

«Io vi parlo del tempo in cui, ragazzi, andavamo a scuola; del tempo che vorremmo tornasse ma è impossibile. Dei sogni, delle speranze che avevamo nel cuore; della nostra innocenza; delle lucciole che credevamo stelle perché piccolo piccolo era il nostro mondo, basso basso il nostro cielo. Vi parlo delle stesse cose che voi ricordate, e se ve le siete scordate v’aiuto a ricordarle. Di quelle cose perdute che voi ora trovate nei vostri figli, e vorreste – tanto sono belle – che non le perdessero mai.»

Fonte foto: castelfrancopiandisco.it

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