Il grande quaderno, una “fiaba dark” popolata di esseri pervertiti e crudeli

il-grande-quadernoL’ultimo film del regista ungherese Jànos Szasz è l’adattamento di un famoso romanzo del 1986 della scrittrice Agota Kristof, prima parte della “Trilogia della città di K.”

Durante la Seconda Guerra Mondiale, in Ungheria, una giovane donna disperata giunge in un villaggio di campagna di un imprecisato paese e affida i suoi due figli gemelli adolescenti a sua madre, una vecchia alcolista dispotica e sadica che tutti nel villaggio chiamano “la strega”: lontani dalla “Grande Città” e dai primi bombardamenti, i ragazzi potranno vivere più sicuri fino alla fine delle ostilità. I gemelli resistono tenacemente ad ogni tipo di vessazione e crudeltà da parte degli adulti, annotando su un diario, il “grande quaderno” del titolo, dono del loro padre prima di partire al fronte, ogni aspetto del vissuto quotidiano. Fin da subito imparano a sopravvivere da soli al male che li circonda, e l’unico modo per farlo è diventare spietati e insensibili al dolore fisico, ai sentimenti e all’amore, secondo un processo di disumanizzazione che li condurrà all’inevitabile separazione finale.

Il grande quaderno colpisce fin dalle prime sequenze per il taglio freddo e distaccato della messa in scena, suggestiva scelta stilistica voluta dal regista grazie alla superba fotografia di Christian Berger, celebre direttore della fotografia di Michael Haneke: luci e colori tenui, tendenti al grigio, fanno da sfondo a personaggi volutamente poco empatici; perfino nei gemelli protagonisti, con la loro fissità di sguardo e movimenti, non riusciamo a identificarci completamente, e la loro graduale trasformazione viene percepita dallo spettatore come qualcosa di fenomenologico. Tutti i personaggi non hanno nemmeno un nome: ci sono i Gemelli, la Madre, il Padre, la Nonna, l’Ufficiale, Labbro Leporino: non ci è permesso familiarizzare con loro, dobbiamo solo conoscere il ruolo che svolgono nella storia senza possibilità di entrare in confidenza; lo sguardo del regista (e dello spettatore con lui) è gelido, severo e rigoroso, la morale ribaltata, il melodramma assente.

È un film di guerra anomalo, dal momento che la guerra non viene quasi mai mostrata direttamente, è lasciata fuori-campo ma è minacciosamente presente come un‘ombra che abbraccia tutti gli uomini corrompendoli e lasciando effetti permanenti nei loro animi. Quasi tutti i protagonisti del film sono negativi: si salvano un calzolaio ebreo dall’animo nobile e una giovane ladra col labbro leporino un po’ ritardata, che proprio per la loro bontà non riusciranno a sopravvivere in questo cinico mondo, agnelli indifesi nelle grinfie di lupi voraci.

Il Male che riscontriamo nella guerra è solamente una proiezione di un Male più grande che è presente nell’Uomo: il passaggio dall’adolescenza delle grandi speranze e dell’ottimismo al mondo degli adulti, presuppone un cambiamento di prospettiva repentino perché l’innocenza è perduta per sempre e non si ha nemmeno il tempo per piangerla. La trasformazione è avvenuta: per diventare adulti e per salvarsi si è costretti perdere ogni traccia di umanità, facendo aderire il proprio animo al male.

Se si vuole a tutti i costi trovare una categoria, più che un film di guerra, Il grande quaderno si potrebbe definire una fosca “fiaba dark” (facile il paragone con Hansel e Gretel nella casa della Strega), un horror esistenziale crudo e realistico popolato di esseri pervertiti e crudeli, un racconto di formazione al dolore cinico e senza speranza, dove i buoni sentimenti non solo non possono trionfare, ma sono un ostacolo pericoloso per rimanere in vita: Darwin batte Dickens senza pietà.

di Fabio Rossi

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