Giacomo Leopardi: l’arte dell’imitazione e la grandezza di ciò che è straordinario 

giacomo leopardi

Il mondo è come l’uomo, più invecchia e più acquista in esperienza e freddezza. Lo dice un giovane Giacomo Leopardi guardando al suo secolo, che nello Zibaldone definisce «secolo della ragione». Dove è finito dunque quel passato in cui la realtà poteva ancora essere filtrata dalle illusioni? Agli occhi dell’uomo moderno ciò che è grande è grande, ciò che è piccolo è piccolo. Semplicemente. Per gli antichi invece è piccolo ciò che è ordinario e grande ciò che è straordinario. Un giudizio di valore, non di misura, che fa della straordinarietà il soggetto poetico per eccellenza. 

Grandezza e straordinarietà

Leopardi, ancora immerso nella fase del pessimismo storico, porta come esempio la percezione della grandezza di Alessandro Magno. La definisce «tutta illusione». E aggiunge: «Lo straordinario ci par grande: se sia poi più grande dell’ordinario astrattamente parlando, non lo so: forse anche qualche volta sarà più piccolo assai in riga astratta, e quest’uomo strano e celebre messo a tutto rigore a confronto con un altro ordinario ed oscuro si troverà minore: nondimeno, perché è straordinario si chiama grande: anche la piccolezza quando è straordinaria si crede e si chiama grandezza». 

Dato che la ragione non comprende tutto questo, può essere definita «nemica della grandezza». Ma è anche nemica della natura perché strappa il velo delle illusioni suscitate dalla natura stessa. Le fa cadere e le rende inabili al loro compito primario che è «muovere alle grandi cose». Il mutamento (e la degenerazione) del rapporto tra uomo e natura si riversano inevitabilmente sulla qualità dell’arte, che un tempo era deputata all’esaltazione della straordinarietà mentre all’epoca di Leopardi, causa l’avvento del Romanticismo, rischia di affondare nell’ordinario. 

Il patetico romantico e la forza dell’imitazione antica

Dopo aver terminato la lettura del n.91 dello «Spettatore», Leopardi sente il bisogno di esprimere il suo dissenso su alcune osservazioni di Ludovico di Breme sulla poesia moderna. Lo fa ancora una volta nel suo Zibaldone. Descrive il patetico tanto caro ai romantici come «quella profondità di sentimento che si prova dai cuori sensivi, col mezzo dell’impressione che fa sui sensi qualche cosa della natura» e ne contesta il ruolo di sommo fine dell’arte. Per fare questo Leopardi ricorre ancora una volta alla metafora delle stagioni della vita, presentando l’antichità-puerizia come polo positivo e la modernità-maturità come negativo.

L’antico-infante si lascia abbagliare dalle illusioni perché — proprio come sarà il fanciullino pascoliano — è ancora capace di meravigliarsi. Coglie l’aspetto straordinario della natura e lo riproduce così com’è, senza bisogno di sovrastrutture. Non ne fa una fredda copia al dettaglio ma una perfetta imitazione. E nell’imitare mette l’oggetto sotto la luce giusta e gli restituisce il suo senso autentico. Ma soprattutto ricorda questo senso ai destinatari dell’opera e ne risveglia spontaneamente i sentimenti.

Artificio e regressione

Al contrario, i romantici spogliano la natura da ogni illusione e la ripropongono in modo da suscitare una determinata emozione. Un processo artificiale e artificioso che mira a sedurre il lettore ma che, secondo Leopardi, finisce per ricordare la tendenza all’eccesso del dilettante. Solo in questo senso i rapporti metaforici si invertono e la poesia moderna finisce per essere più fanciulla di quella antica. L’artista infatti, quanto più è esperto tanto più va incontro alla semplicità. Al contrario chi muove i primi passi in campo artistico tende a esagerare, a ridondare. 

Maturità come regressione, dunque. Crescita come decrescita che legittima l’aggettivo «storico» della prima fase del cosiddetto “pessimismo” leopardiano. Eresia secondo la quale, come Leopardi afferma nel suo Discorso di un italiano sulla poesia romantica, ha più valore «un fantoccio vestito d’abiti effettivi con parrucca, viso di cera, occhi di vetro» che «una statua del Canova». Ecco come la natura benigna rischia di perire sotto il peso di una nuova sensibilità e come viene negata la via all’immaginazione che rendeva così «dolce» il «naufragar in questo mare».

Foto di David Mark da Pixabay

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