Dante Alighieri: origine e destino del Dolce Stil Novo

Ogni volta che un autore pubblica un’opera è come se la chiudesse in una bottiglia e la gettasse in mare. Non si sa dove le onde la porteranno, quale sarà la sua fortuna. Viene affidata ai posteri, occhi nuovi che ne coglieranno nuove sfumature di significato e che a loro volta la spingeranno verso altre imprevedibili destinazioni. Mentre scriveva la Commedia per esempio, Dante Alighieri non poteva immaginare che proprio da uno dei suoi versi sarebbe derivato il nome del movimento letterario di cui lui stesso sarebbe stato considerato il maggior esponente. 

La vecchia e la nuova generazione

Il termine Dolce Stil Novo viene coniato da Dante ma è nel 1870, grazie al critico Francesco De Sanctis, che si cristallizza come formula storiografica identificativa dei temi e dei modi espressivi di un gruppo di giovani poeti toscani vissuti tra XIII e XIV secolo. Compare per la prima volta nel XXIV canto del Purgatorio: «O frate, issa vegg’io […] il nodo/che l’Notaro e Guittone e me ritenne/di qua dal dolce stil novo ch’i odo». Dante mette queste parole in bocca al poeta lucchese Bonagiunta Orbicciani, che le usa per distinguere lo stile dei poeti della vecchia generazione (tra cui Guittone d’Arezzo e lui stesso) da quello dei nuovi poeti. 

Lo stile di Guittone d’Arezzo era fondato sulla convinzione che le abilità del poeta stessero nella sua capacità retorica. Ne derivavano versi eruditi, espressioni artificiose, rime aspre. I poeti della nuova generazione respingono questo modo di fare poesia. Prediligono la musicalità e l’armonia delle rime semplici. La gentilezza dello stile è riflesso del sentimento che anima i loro versi.

La donna angelo e la nobiltà d’animo

Dice Bonagiunta: «Io veggo ben come le vostre penne/ di retro al dittator  se ne van strette,/che de le nostre certo non avvenne;/e qual più a riguardar oltre si mette,/non vede più da l’uno a l’altro stilo».  Il dittator non è un individuo in carne e ossa, ma l’Amore con la “a” maiuscola. Non a caso Dante si presenta al poeta lucchese come: «un che, quando/amor mi spira, noto, e a quel modo/ch’è ditta dentro vo significando» L’amor che (i)spira è quello puro che eleva lo spirito. Quello che ruota intorno alla donna angelo, mediatrice tra il poeta e Dio, fonte di salvezza riservata a pochi eletti. 

Dante, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e gli altri stilnovisti sono gli unici detentori di questo privilegio. Essi infatti si ritengono superiori alla massa per genio e intelletto, pertanto possono considerarsi parte di una corte ideale che ammette solo nobili. Nell’ottica stilnovista anche la nobiltà assume un significato diverso. Niente a che fare con sangue e titolo. Si tratta di una nobiltà d’animo che si manifesta nelle opere individuali, coerentemente con un contesto storico-sociale nel quale l’affermazione dei comuni vede i valori feudali soccombere di fronte alla rapida ascesa di quelli borghesi.

Nel XXIV canto viene menzionata anche la prima canzone della Vita Nova, Donne ch’avete intelletto d’amore. Si tratta di un vero e proprio manifesto dello Stilnovo. I suoi endecasillabi coronati da rime piane realizzano pienamente l’ideale formale di armonia e semplicità a cui aspira la poesia stilnovista. Inoltre si rivolge direttamente alle donne — vere intenditrici d’amore — per parlare di una donna: la sua Beatrice. 

La lezione guinizzelliana

Sempre nel canto XXIV del Purgatorio Dante afferma di riconoscere nel poeta Guido Guinizzelli il padre dello Stilnovismo: «Quali ne la tristizia di Ligurgo/Si fer due figli a riveder la madre,/tal mi fec’io, ma non tanto insurgo,/quand’odo nomar se stesso il padre/mio e di l’altri miei meglior che mai/rime d’amor usar dolci e leggiadre». Il nome di Guinizzelli compariva già accompagnato da parole d’encomio nella Vita Nova, nel Convivio e nel De vulgari eloquentia. Dante è consapevole che con la sua canzone Al cor gentil ripara sempre amore il poeta bolognese abbia gettato le basi di un nuovo poetare che a Firenze ha trovato terra fertile.

Anche se a un certo punto lui stesso prenderà le distanze dalla dolcezza stilnovistica per sperimentare l’asprezza delle rime petrose, non dimenticherà la lezione guinizzelliana. La sublimità delle rime giovanili tornerà a galla nei momenti più solenni della Commedia (soprattutto nel Paradiso). Risorgerà nel contesto di un plurilinguismo che oscilla tra registri stilistici opposti, specchio della contraddittorietà della vita.

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