Campionati del mondo di atletica. Gli italiani, chi l’ha visti?

IMG_7381Si sono conclusi i XVI Campionati del Mondo di Atletica leggera, allestito a Londra nella splendida cornice dello Stadio Elisabetta II. La manifestazione passerà alla storia come il mesto addio di Usain Bolt, il giamaicano pluricampione olimpico e mondiale e del fondista somalo-britannico Mo Farah che, per la prima volta dopo sei anni, è stato battuto nei 5000 metri (nei 10000, tuttavia, aveva già conquistato la medaglia d’oro).

Disastrosa è stata la performance degli atleti italiani, soprattutto nelle discipline all’interno dello stadio. Per quelle su strada (sei su 44), infatti, dobbiamo dire che ci siamo difesi. La marciatrice Antonella Palmisano ha vinto la medaglia di bronzo nei 20 chilometri di marcia, a pochi secondi di distacco da una cinese e da una messicana; Daniele Meucci è arrivato quinto nella maratona, battendo il proprio primato personale e Marco De Luca è arrivato nono nella 50 chilometri di marcia, con il suo record stagionale, in una gara velocissima dove, a pochissimi chilometri dal traguardo, era sesto.

Nella gare all’interno dello stadio, nessun italiano tra i primi 8

La medaglia di bronzo della Palmisano (quarta a Rio 2016 e quinta a Pechino 2015) non basta a mascherare la crisi profonda di uno sport che in passato, in Italia, aveva visto i trionfi di Livio Berruti, di Pietro Mennea, di Sara Simeoni e di decine di altri fuoriclasse. Se è vero che nelle ultime due manifestazioni – le Olimpiadi di Rio e i mondiali di Pechino – gli azzurri non erano riusciti a conquistare nemmeno quell’unica medaglia, le loro prestazioni complessive erano state decisamente migliori. Ma ci sarebbe voluto poco.

In pista o nei “concorsi”, infatti, nessun italiano è riuscito a classificarsi nei primi otto! La miglior prestazione l’ha resa il martellista Marco Lingua giungendo decimo. Al suo terzo lancio, il martello ha toccato terra – evento che in anni che seguiamo l’atletica non ci era mai capitato di assistere – ed è stato considerato nullo. Ai microfoni Rai, Lingua ha dichiarato che pratica questo sport per puro hobby, in un mondo di professionisti se non proprio miliardari, quanto meno milionari.

E’ questo il nodo dell’atletica italiana: non si è adeguata ai mutamenti dello “spirito olimpico”. Siamo rimasti ancora ai tempi di Livio Berruti, che si allenava due pomeriggi a settimana e la domenica andava a correre le gare. Mennea era già più avanti, come mentalità, rispetto agli atleti di oggi. I meeting internazionali, proficuamente remunerati, dove è possibile confrontarsi settimanalmente con i più forti atleti stranieri, sono puntualmente disertati dagli italiani di adesso: siamo arretrati, come mentalità, anche rispetto agli anni cinquanta e sessanta, perché lo stesso Berruti, Ottolina, Morale e Frinolli, i meeting – gratuitamente – li gareggiavano, eccome!

Si è persa, nello staff tecnico, la passione e la voglia di cercare le giovani promesse e farle crescere nei centri specializzati (Rieti e Formia, ad esempio), come succede per le altre discipline come il nuoto, la ginnastica e la scherma. Non è un caso se vediamo salire sul podio atleti di minuscoli Stati dei Caraibi o dell’Africa. Anche lì, quando nasce un potenziale campione o campionessa, li si spedisce in America, con viaggio e soggiorno spesato, a farsi le ossa e a confrontarsi subito con i pari età statunitensi. Così si spiegano le medaglie d’oro conquistate dal Botswana o da Trinidad & Tobago.

Mondiali di transizione

Per il resto si sono trattati di mondiali di transizione, o meglio: post-olimpici. Non tutte le squadre, dopo le Olimpiadi dell’anno scorso, si sono presentate al meglio. Lo si è visto dai risultati e non solo sotto il profilo dei riscontri cronometrici. Probabilmente la sconfitta di Bolt nei 100 metri e il suo infortunio nella staffetta 4×100 sono stati dovuti alla sua scarsa (inesistente?) preparazione.

Lo stesso Mo Farah, sui 5000 metri (dove, pure, ha vinto la medaglia d’argento), si è trovato a corto di fiato, in una gara che si è conclusa con un tempo superiore a quelle delle Olimpiadi di Monaco di quarantacinque anni fa! Stanchissimo il sudafricano Van Niekerk, dopo la sua vittoria nei quattrocento metri e successiva conquista – per forza d’inerzia – della medaglia d’argento nei duecento.

Bene, come sempre, gli statunitensi (30 medaglie, di cui dieci del metallo più nobile); i keniani (11, di cui cinque d’oro); sudafricani e francesi (tre ori a testa). Inferiori alle attese i padroni di casa inglesi e – tutto sommato – gli etiopi, ai quali va, però, il merito di aver fatto gioco di squadra nei 5000 metri ed essere riusciti prima a “chiudere” e poi a battere Mo Farah. Deludenti i giamaicani, non solo per la disfatta di Bolt, ma anche in campo femminile. Qui non ha affatto deluso la statunitense Alison Felix che, svariando dalle staffette ai 400 metri piani, ha battuto il record di atleta plurimedagliata di sempre ai mondiali: 16, di cui 11 d’oro!

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