Una scommessa e un’opportunità’ – Il protagonismo del lavoro e…

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Uno degli effetti più macroscopici prodotti dalla crisi, che scuote il mondo da cinque anni, è l’aumento delle disuguaglianze economiche. Una deleteria finanziarizzazione dell’economia ha condotto all’aumento delle distanze tra paesi poveri e quelli ricchi ma anche all’interno di questi ultimi è prepotente il fenomeno della concentrazione delle risorse nelle mani di una fascia più ristretta di cittadini.
La crisi, iniziata con tracolli bancari dovuti ad eccessi di speculazione finanziaria, ha poi accentuato gli squilibri nella distribuzione dei redditi per arrivare infine ad una concentrazione della domanda e dunque dei consumi che, a sua volta, sta provocando una frenata delle attività produttive unita a maggiori difficoltà nel finanziamento dei bilanci pubblici.
Il mantenimento di privilegi a favore di una minoranza equivale a un insulto all’equità tra i cittadini, rischiando di trasformarsi in un fattore di disgregazione sociale, pertanto il ricorso ad adeguate misure fiscali diventa necessario ma non esaustivo.
Una iniquità distributiva che in Francia ha condotto Hollande a rialzare al 75% il prelievo per i redditi superiori al milione di euro.
Mentre in Italia ancora si tergiversa su  una patrimoniale e sulla sua entità.. limitandosi a blitz simil Cortina..
Ma, seppure importanti e necessarie, le cesoie fiscali sui redditi non bastano a riequilibrare un’economia devastata.
Un’economia degenerata che ritrova le sue origini nella compiacente negligenza con cui molti Stati hanno abbandonato a se’ stessi i mercati finanziari, lasciandoli liberi di moltiplicare a dismisura quelle posizioni di conflitto di interesse su cui pochi privilegiati hanno lucrato margini di guadagno altrimenti impossibili.
Dunque,se non si interviene nel controllo di questi meccanismi, le misure fiscali adottate saranno invariabilmente vanificate.

Il lavoro, le imprese,oggi sono in grave difficoltà, molte a rischio di chiusura e, permanendo tali condizioni, dalla crisi usciremo, se ne usciremo, molto più poveri di prima. Con un atto di coraggio, bisogna dribblare un luogo comune ormai radicato, che è quello liberista, ragionando su un intervento pubblico nell’economia, che preveda un controllo diretto dello Stato su imprese fondamentali dell’industria nazionale, assumendo un ruolo attivo in grandi progetti industriali ed entrando nel capitale di aziende in difficoltà, con lo scopo di guidarle fuori dalla crisi, anche con provvedimenti mirati di defiscalizzazione.
In questi anni abbiamo dematerializzato la Costituzione economica del paese senza costruirne un’altra.
E’ necessario un controllo democratico e indirizzato a fini sociali, da parte del governo, in ossequio a quanto recita il dimenticato e inapplicato art. 41 della Costituzione.
In Italia piuttosto, paese a statalismo diffuso, vista la criticità del giudizio dei mercati su uno Stato nelle sabbie mobili di un debito sovrano e la necessità di esorcizzare un giro di vite sull’IVA nel 2013, i tecnici al governo hanno preferito tagliare la spesa pubblica, con un decreto (alias spending review) che avra’ un forte impatto economico ma soprattutto un alto costo politico, con un compromesso permanente sulle spalle delle generazioni future, su diritti acquisiti, sulle tutele per gli inclusi e le ingiustizie per gli esclusi.
Un decreto che manda in soffitta il welfare e affonda il machete sul pubblico impiego (settore che già da tre anni sopporta il blocco della contrattazione sociale) e i suoi organici, inaugurando mobilità e licenziamenti anche per il publico, tagliando Tribunali ma non incidendo minimamente sui tempi biblici della giustizia, dimezzando Province, annientando piuttosto servizi importanti per il mercato del lavoro e via discorrendo.
Risparmi per 26 miliardi che non sono pochi per un’economia che non cresce da anni e per una società che non cresce da mesi.
Uno stravolgimento che importerà una redistribuzione di funzioni, una migrazione di lavoratori e una revisione dei servizi resi alla cittadinanza senza l’eguali.
Una riscrittura dei confini dello Stato che significherà dimezzamento delle Province con 60mila dipendenti in libera uscita, le Prefetture di cui non sappiamo e Regioni in ambasce, oltre che Comuni alle prese con nuove funzioni ed esuberi a go-go.
Un massiccio ridimensionamento del sistema pubblico che implicherà sedi di confronto locali e centrali, per governare processi che rischiano di determinare espulsioni dal lavoro pubblico o violazioni di norme contrattuali.
Per non parlare della sanità, dove si richiedono sacrifici per cinque miliardi in tre anni, che si assommano ai 13 decisi dal governo precedente.
Un decreto che significa un arretramento dello Stato e una colpevolizzazione evidente del pubblico e di come lo stesso e’ rappresentato nell’immaginario collettivo. Un pubblico che restringe sempre più i propri confini, con un governo preoccupato solo di fare cassa,indifferente o quasi alle ricadute del ridimensionamento dei servizi e della loro qualità.
La fotografia della realtà ci costringe a fare i conti con una verità che ci mostra un’Italia che si contorce confusamente, disorientata, che non riesce a trovare una progettualità compiuta e chiara.

Una progettualità intorno alla quale riunire entusiasmi e passioni per costruire il futuro.
Siamo in crisi, come è in crisi l’Europa. Negli ultimi anni non solo è venuto meno un modello sociale ed economico basato sulle virtù salvifiche del mercato ma anche un sistema morale e culturale che ha prodotto individualismo e povertà di pensiero innovativi.
Dobbiamo costruire una nuova Italia in una nuova Europa e per farlo bisogna ideare un coraggioso innovativo progetto di rinascita.
Non è un affare tecnico, perché non sono sufficienti abilità professorali, non si tratta solo di rifare il maquillage a una macchina malmessa ma ne serve una completamente nuova.
E’ una sfida difficile ma è una vera sfida.
Una sfida che ha bisogno di una idea innovativa di Stato e di un messaggio forte che la rappresenti con chiarezza. Una pianificazione di quello che questo governo vuole fare per svincolarsi dal dominio della BCE, proponendo più che subendo, pianificando  una propria rinascita.
Non un’operazione di facciata, un’aggiustatina per mantenersi a galla.
Riprogettare il paese, come titolava prospetticamente un nostro congresso del 2006, è l’idea, ripartendo dal basso, dalla democrazia, “dal lavoro prima di tutto” (Camusso docet), dai diritti, da un welfare rispettoso.
Oggi la storia ci conduce fuori da un’epoca. Bisogna calarsi in una proiezione dove la politica ritorni al governo delle persone e delle cose.
E al ritorno delle regole nel nome dell’etica e del rispetto, evitando di cadere in operazioni di facciata che invocano le questioni generazionali o di altro tipo.
Bisogna superare la catatonia di questi anni di crisi, dove l’unico paese che non ha fatto una benché minima politica anticiclica rimane l’Italia, ne’ per sostenere redditi o consumi ne’ per stimolare investimenti pubblici a sostegno della domanda nei settori tradizionali o in quelli legati all’ambiente e la messa in sicurezza dei territori. Nessuna politica industriale o di difesa e dei nostri presidi strategici.
La politica, se vuole uscire dal guado, deve guardare a un nuovo modello di sviluppo che si rivolga a produzioni innovative, tecnologiche e ambientalmente compatibili, puntando a un nuovo modello di intervento pubblico, evitando di lasciare solo al mercato la soluzione di questi problemi.
Un intervento pubblico nell’economia, un’economia mista che preveda un controllo diretto dello Stato su imprese fondamentali dell’industria nazionale. Lo si poteva e doveva fare con l’ILVA, un’azienda fondamentale per il tessuto industriale del paese, che per anni ha inquinato e ammazzato, sia quando era pubblica, che dopo la vendita ai privati, nel silenzio delle Istituzioni, e che ora mette a rischio migliaia di posti di lavoro, l’intera economia di una regione e la permanenza dell’Italia in uno  dei settori chiave dell’industria. Per non parlare della FIAT, che per anni ha utilizzato fondi pubblici e addomesticato a suo uso e consumo diritti e regole della contrattazione collettiva  e che ormai è  diventata un’impresa straniera, senza reazione alcuna da parte del governo. E l’elenco può continuare con Alcoa, Finmeccanica , Fincantieri che, per un verso o per un altro sono imprese in difficoltà grave. E oggi un settore minerario strategico rischia di saltare, insieme alla siderurgia e l’alluminio.
Bisogna intraprendere strade nuove, sicuramente impegnative. Le uniche per uscire dalle rovinose politiche dove ci ha condotto un liberismo sempre più selvaggio regolato (o sregolato?) dai mercati.

Questa empasse recessiva, se si ha coraggio, puo’ diventare motivo di svolta nel recuperare una progettualità, con un intervento pubblico che valorizzi lavoro e impresa, riorientato verso il bene comune, anche attraverso le politiche della domanda e dell’offerta. Riprendendo le redini della programmazione e della politica industriale, che sono questioni  che il mercato non può risolvere. E’ necessario che impresa e lavoro diventino prioritarie nelle scelte di politica economia.
In una parola significa regole, che passano attraverso quale ruolo dare ai problemi ambientali, la scelta di nuove tecnologie, quali investimenti fare e in quali settori, su cosa puntare nella scuola e che ruolo devono assumere conoscenza scientifica e cultura.
I beni comuni devono essere l’obiettivo strategico dell’innovato intervento pubblico.
Coinvolgendo i lavoratori, in un assetto che preveda diritti di cooperazione e di codeterminazione all’impresa.
Lavoratori che controllano e partecipano all’indirizzo strategico dell’impresa, in una logica di maggiore attenzione e motivazione al processo produttivo, oltre che di valorizzazione e incentivazione del lavoro stesso.
Questo presuppone un cambiamento culturale e di mentalità e una elaborazione di pensiero e di categorie che pongano al centro un nuovo modello di sviluppo che guarda ai beni comuni, ai beni sociali, alla green economy.
La nostra Organizzazione, da tempo ormai proiettata e culturalmente orientata verso questa direzione, costituisce sia dal punto di vista organizzativo che da quello ideologico una grande forza, in grado di attingere a una grande gamma di energie morali e sociali, potendo contare sulle sue profonde radici popolari che sull’appoggio di intellettuali più di qualsiasi altra forza nel paese.
La nostra forza, la nostra tenacia, i nostri talenti possono trainare il cambiamento, aiutando il paese a diventare motore di sviluppo e artefice del suo futuro.
Un futuro non solo indicato dalla BCE.
Riprendere in mano le sorti delle imprese, appoggiare una partecipazione responsabile dei lavoratori alle scelte strategiche delle stesse, significa riappropriarsi del proprio destino, che per troppo tempo è stato lasciato in mano ai mercati, cha hanno governato la politica.  
La recessione, la flessione della produzione, la diminuzione degli investimenti privati, la disoccupazione ormai elevatissima (con tutti i suoi distinguo tra precari/donne/”sudisti” ecc.), lo spettro del futuro, vanno esorcizzati da un formidabile motore pubblico a partire da un Piano straordinario per il Lavoro,oltre che da una riforma della Pubblica Amministrazione, che non significhi tagli ma efficientamento e potenziamento.
La CGIL ha formulato un Piano per il Lavoro e che sarà presentato ufficialmente il prossimo autunno, quale proposta concreta che consegneremo al governo, dal momento che incentivi indiretti, occupabilità, flessibilità sono ricette che stanno producendo fallimento.  
Un Piano per il Lavoro finanziato da una patrimoniale al di sopra degli 800mila euro, con un’aliquota crescente, che significherà 100 euro in piu’ ai dipendenti, una politica industriale nuova e nuova occupazione.

Un piano per il Lavoro dove il lavoro ritrova la sua centralità, la dignità e diventa paradigma e parametro di tutte le politiche.  
Altra grande strada di pacificazione e coesione sociale è la concertazione negata, scientificamente evitata in questi anni, anni che stanno creando una società di disuguali privi di diritti, di gente arrabbiata e delusa da una politica che non interpreta più ne’ traduce la richiesta di benessere pubblico in azioni efficaci.
Bisogna ritrovare un dialogo mediativo che faccia rigenerare fiducia nelle Istituzioni, in una politica che ormai interpreta il mondo secondo codici sempre piu’ lontani dalla gente, codici avulsi da solidarietà ed equità.  
Dobbiamo ricercare con forza, come O.S., il ritorno a soluzioni concertate, le quali raccolgono il consenso delle parti interessate,soprattutto quando si tratta di parti opposte negli interessi. Soluzioni che ricercano un punto di equilibrio, con uno sguardo di favore a chi risulta maggiormente penalizzato da quelle soluzioni.
E la CGIL, che vive e lavora sul territorio e con il territorio, quelle istanze le conosce bene e le decodifica.
Istanze provenienti da chi subisce i disagi procurati dalla recessione.
La nostra Organizzazione si sta lentamente adeguando alla Storia, mettendosi in discussione, esattamente come succede quando  ci sono i momenti di crisi, il cui messaggio più chiaro è: siamo giunti alla fine di un’epoca, bisogna cambiare. Tuttavia mantiene forti le sue radici, che sono la lettura della realtà e una progettualità ispirata all’equità, alla solidarietà e ai diritti, il legame forte con uomini e donne, il lavoro nella sua espressione piu’ nobile, la concertazione, la territorialità e una pianificazione tecnica e politica per dare una soluzione positiva a questo paese.
La politica deve ascoltare.  (noodls)

Giuseppe Gesmundo
Segretario Generale Cgil Bari

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