La teoria dei giochi

A e B vengono arrestati poiché sospettati di aver rapinato una banca, tuttavia mancano prove sufficienti per una condanna. La polizia separa i due sin da subito e procede con l’interrogatorio individuale, offrendo ad entrambi le seguenti alternative: se nessuno dei due sospettati parla, allora ad ognuno spetta un anno di carcere; se solo uno dei due collabora, solo questo non andrà in galera, l’altro prenderà 5 anni di pena; se entrambi parlano, allora la pena sarà per ciascuno di due anni.

Cosa fareste?

Come ottenere il massimo risultato da una complessa situazione? Nel gioco del Poker, così come in quello del Risiko, vengono compiute mosse razionali volte ad ottenere il maggior beneficio possibile a discapito degli avversari coinvolti. La ricerca della soluzione razionale guidata dalla massimizzazione della vincita non necessariamente coincide con l’esito auspicabile, neppure nel caso di un equilibrio più o meno stabile. Su scala reale e mondiale, questo ragionamento è riconducibile alla Guerra fredda e alla corsa agli armamenti che la rese possibile. Il precario e pericolosissimo equilibrio durato circa mezzo secolo tra Stati Uniti e Unione Sovietica fu frutto di una stessa strategia – o forse prigionia – vale a dire la ratio del miglior guadagno individuale.

Di fatto prigionieri furono gli stati stessi, vincolati dalle informazioni che avevano a disposizione, dal rapporto di sfiducia in cui si trovavano, dall’incomunicabilità e dall’impossibilità di collaborazione reciproca. Seppur auspicabile fosse l’inerzia, perciò lo status quo degli stati, equivalente alla scelta di limitare la produzione di armi, la corsa al nucleare fu l’opzione più vantaggiosa per entrambi, quindi la strategia dominante del conflitto, la quale permise di creare un deterrente e stabilire una supremazia sull’altro. Scopo della deterrenza USA-URSS fu infatti quello di convincere il rivale del fatto che chiunque avesse compiuto il primo passo, avrebbe comunque subito le conseguenze negative dell’atto.  

Dietro a queste letture vi è la teoria dei giochi.

Strategia o prigionia?

La teoria dei giochi nasce in ambito matematico, per meglio dire dall’applicazione della matematica allo studio e all’analisi delle decisioni individuali mettendo in luce strategie di decisione.

Occorre anzitutto distinguere tra giochi cooperativi e non cooperativi, altrimenti detti competitivi. I primi vedono una configurazione per cui le parti interessate possono dapprima accordarsi nella ricerca di una strategia congiunta al fine di raggiungere un obiettivo comune; nel secondo caso, gli interessi e le variabili contemplate sono molteplici, plausibilmente discordanti, e le parti in gioco non hanno la possibilità di accordarsi preventivamente al fine di escogitare la soluzione più vantaggiosa per entrambi. Un tipico esempio di giochi non cooperativi è la borsa con il suo trading giornaliero.

Ovviamente non è possibile offrire un’unica soluzione, poiché risolvere un gioco, prendere una scelta, così come superare un conflitto, presuppone una serie di indicazioni, perciò informazioni,  che devono essere fornite ad uno o più giocatori, quindi parti interessate.

L’equilibrio di Nash

Probabilmente in molti avranno sentito parlare di John Nash o ancor più del film “A beautiful mind”, in cui il famosissimo attore Russell Crowe interpreta le geniali doti di un giovane matematico, le cui intuizioni sulla teoria dei giochi gli valsero il Nobel per l’economia nel 1994.

John Forbes Nash non fu l’unico scienziato ad aver ottenuto un simile encomio per aver applicato i proprio studi alla teoria dei giochi; molti sono i contributi che nel tempo l’hanno modellata, definita, decostruita e arricchita, e numerosi i premi riconosciuti per tale impegno. John Von Neumann e Oscar Morgenstern furono i fondatori della teoria; i loro studi, nati dall’analisi della realtà dei giochi cooperativi, furono resi pubblici nel 1944 nell’opera “Theory of Games and Economic Behavior”. Tuttavia, già prima della loro pubblicazione, altre brillanti menti si cimentarono nel settore, gettando le basi di quella che prenderà poi il nome della teoria attuale.

Carte alla mano

L’obiettivo della teoria dei giochi è delineare potenziali situazioni strategiche, dunque studiare piani ideali volti a stabilire come i giocatori dovrebbero comportarsi, per quale  scelta  dovrebbero optare, evidenziando al contempo l’inestricabile interdipendenza degli esiti, allo scopo di raggiungere il miglior risultato possibile. Nel caso di situazioni di gioco cooperativo, la decisione risulta più semplice, essendoci un fine e un interesse condivisi dalle parti. La realtà si complica nel caso di configurazioni competitive.

Ogni attore ha una propria strategia, pertanto una serie di mosse che possono essere più o meno vantaggiose, e dei pay off (risultato, saldo, vantaggio), ovvero la vincita – ma anche perdita – finale associata all’esito del gioco. La strategia dei giochi può essere normalmente definita come la teoria della scelta razionale, in situazioni di conflitto: qual è l’opzione più razionale e conveniente per un individuo che intende raggiungere il proprio obiettivo o comunque il risultato migliore?

Nella realtà dei fatti, tuttavia, il giocatore, quindi il diretto interessato, può essere indotto a comportarsi diversamente da quanto teoricamente auspicabile, senza escludere la possibilità di decisioni non pienamente ottimali, seppur razionali. Questo elemento di “potenziale fallibilità” introduce il limite stesso della teoria.

A John Nash si deve un fondamentale contributo alla teoria, in particolar nell’ambito dei giochi non cooperativi e per il noto teorema che prende appunto il suo nome, “Equilibrio di Nash”. Esso indica la situazione in cui tutti i giocatori hanno delle strategie tali per cui a nessuno dei tanti conviene cambiare la propria, fissate quelle degli altri. Si tratta di situazioni caratterizzate da strategie dominanti, in cui la scelta individuale è per entrambe le parti la strategia ottimale, qualunque sia la scelta dell’altro giocatore. Esattamente ciò che avvenne durante gli anni della Guerra fredda: la soluzione non ottimale della la corsa agli armamenti fu l’unico equilibrio di Nash delle due superpotenze, quindi del conflitto.

Cooperare o no?

Il dilemma del prigioniero è uno dei giochi più studiati in relazione alla teoria applicata ai conflitti. Essa mette in crisi il teorema del famoso matematico, rivelando che non sempre l’equilibrio di Nash è la situazione migliore per il gruppo. Tuttavia, “Per cambiare, occorre agire insieme” (John Nash), e per farlo è necessario comunicare, collaborare.

Riprendiamo a tal punto il dilemma proposto all’inizio di questo articolo, spiegandone la soluzione. Alla stregua della corsa agli armamenti, la conclusione alla quale i due sospettati di rapina giungono, al fine di minimizzare la propria pena, non può che essere una. Fatta salva la consapevolezza da parte di entrambi – ovvero ad entrambi è chiaro quanto avrebbero da perdere – se i due sospettati non sono certi che l’altro non manterrà il segreto, parlare è allora la migliore strategia individuale per entrambi (due anni di carcere). Equilibrio di Nash.

Chiaramente, l’esito del gioco sarebbe un altro se vi fosse la possibilità di accordo tra i sospettati: qualora essi potessero preventivamente comunicare tra loro, sceglierebbero di non confessare perché ciò comporterebbe un pay-off maggiore per entrambi (solo un anno di carcere). Non collaborare sarebbe effettivamente il miglior risultato per i due soggetti, ma ciò è impossibile, non trattandosi di un equilibrio.

Morale

Come lo stesso Nash afferma, il miglior risultato si ottiene quando ogni componente del gruppo farà ciò che è meglio per sé e per il gruppo, piuttosto che perseguire esclusivamente i propri interessi. Nel caso del gioco in questione, se gli ipotetici A e B decidessero di non accusarsi vicendevolmente, avrebbero un risultato maggiore. Tuttavia dal punto di vista individuale, e nell’impossibilità di comunicare, il pay off del singolo individuo – ragionamento egoistico – che accusa l’altro, è il più vantaggioso.

La teoria dei giochi trova vasta applicazione in numerosi campi, dalla finanza al settore militare, dalla psicologia all’informatica.

Uno dei problemi più grandi nei conflitti – dove per ‘conflitto’ si deve intendere anche un semplice confronto, un’interazione tra le parti o molteplici interessi – è la mancata trasparenza che in genere li caratterizza. Il confitto diventa progressivamente ingestibile, contestualmente alla mancanza di informazioni recepibili in merito alle parti coinvolte, quindi al conflitto stesso. Ciò rende il confronto intrattabile, insanabile. É il problema iceberg, a cui si associa l’incapacità di guardare dietro e oltre. Ogni individuo, nella propria quotidianità, è prevalentemente indotto a pensare per sé. La teoria del prigioniero mette in luce che in realtà ragionare nell’interesse del gruppo, piuttosto che esclusivamente sulla base delle proprie esigenze, sarebbe più vantaggioso.

Al di là di quella che potrebbe sembrare una banale rivelazione, questo ci dice anche (ed ancora una volta) che la metafora “mano invisibile” di Adam Smith ha bisogno di correzioni, non potendo la ricerca del soddisfacimento individuale concorrere al benessere dell’intera società.

Foto di Pexels da Pixabay

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