Cosa si direbbero il cadavere di un nobile superbo e quello di un poeta plebeo se per uno strano caso del destino si ritrovassero a condividere la stessa tomba? Ce lo rivela Giuseppe Parini nel suo Dialogo sopra la nobiltà, letto presso l’Accademia dei Trasformati nel 1757. Il dialogo — insieme al poemetto Il giorno — porta avanti la polemica anti-aristocratica dell’autore. Lo fa per mezzo di quell’ironia propria solo delle menti brillanti, che consente di affermare qualcosa lasciando intendere l’esatto contrario.
Dei due protagonisti, tale ironia appartiene solo al poeta plebeo, che interroga l’aristocratico al solo scopo di confutare le sue risposte. La questione è: la nobiltà di sangue giustifica davvero la superiorità dei titolati rispetto agli altri membri della società? A sostegno della tesi il nobile pone la diversa nascita, la purezza del sangue, l’antichità della stirpe: tutti argomenti che hanno a che fare con l’eredità e non c’entrano niente con la virtù. E afferma: «egli è pur certo che noi altri nobili dobbiamo essere rispettati da voi [plebei], se non altro, almeno per l’antichità della nostra prosapia».
La vanità del titolo nobiliare e l’importanza della virtù
Ma siamo nell’epoca dei lumi e non basta più sfoggiare qualche avo illustre per aggiudicarsi la reverenza degli altri. In questa fase Parini — come gli altri pensatori illuministi — mira a una cultura che risponda ai bisogni concreti della società, che offra soluzioni, che premi l’impegno della classe media a fronte del parassitismo nobiliare. Infatti il poeta plebeo prende in giro il nobile, gli domanda: «Deh, signore, ditemi per vita vostra, quanti secoli prima della creazione cominciò egli mai la vostra prosapia?».
E quando l’aristocratico gli risponde che la sua stirpe risale ai tempi di Carlo Magno, il poeta ribatte dicendo: «Olà, tu fammi dunque di cappello tu, scostati da me tu […] Perché la mia famiglia è di gran lunga più antica della tua […]. [Viene] dalle costole d’Adamo». Con questa affermazione il poeta si riferisce alla comune origine degli esseri umani. Per lui gli uomini sono tutti uguali e nella vita possono distinguersi solo seguendo una condotta virtuosa, unica strada per la vera nobiltà: quella d’animo.
Educazione: un’opera di riforma
Tuttavia non bisogna pensare che l’autore voglia sopprimere la classe nobiliare. Da buon riformatore, vuole solo educarla a utilizzare le proprie risorse per contribuire al conseguimento della felicità di tutta la società. Infatti nel Dialogo fa dire al poeta plebeo che: «se la nobiltà è congiunta con la virtù, avviene di questa come le antiche medaglie, che, quantunque la loro patina non renda intrinsecamente più prezioso il metallo onde sono composte né migliore il disegno onde sono improntate, nondimeno, per una opinione di chi se ne diletta, riescono più care e pregiate».
Non c’è traccia di ironia in queste parole: non è più il momento di confutare, ma di educare. Una volta dimostrato che i nobili hanno il sangue rosso e fluido come quello di ogni comune mortale, che anche loro discendono da Adamo e che il loro lustro viene dall’eredità dei meriti degli avi (che tuttavia avranno avuto anche dei demeriti), è l’ora di indicare in che modo la nobiltà può rendersi virtuosa. Solo unendo le proprie risorse a una condotta saggia e modesta l’aristocrazia può diventare utile, quindi meritevole dei privilegi di cui gode in società.
L’imprevisto dopo la morte e la missione del poeta
Questa verità colpisce il nobile come un fulmine a ciel sereno. Costretto a ammettere la sua «sciocca e ridicola presunzione», vede tutte le sue certezze crollare come un castello di carte. «Fa’ conto che, al mio primo uscir dalle fasce, io non mi sentii sonare mai altro all’orecchio se non che io era troppo differente dagli altri uomini, che io era cavaliere, che il cavaliere deve parlare, stare, moversi, chinarsi, non già secondo l’affetto o la natura gl’ispira, ma come richiede l’etichetta e lo splendore della sua nascita».
Grazie all’imprevisto di essersi ritrovato nella stessa tomba con il poeta plebeo dunque, il nobile scopre che tutta l’educazione che ha ricevuto in vita è un «bel nulla». E si duole per aver scoperto la verità solo dopo la morte, quando il corpo è ormai prossimo a decomporsi. Il poeta invece esce vittorioso dallo scambio. A sua volta morto e vicino alla decomposizione, fa appena in tempo a portare a termine la sua missione morale. Riesce finalmente a farsi ascoltare da colui che in vita era «troppo briaco di vanagloria» per dare peso alle parole di un plebeo.
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