Scompare Sergio Marchionne, ultimo manager di una FIAT tutta italiana

Abbiamo atteso il comunicato ANSA che oggi alle 12.25 ha ufficializzato la morte di Sergio Marchionne, già amministratore delegato di FCA prima di scrivere il presente pezzo. Lo ha abbiamo fatto per rispetto di un uomo che sicuramente ha rappresentato, nel mondo, il “genio italico” e che, poi, pur non condividendone le azioni, ci era simpatico, con quel maglioncino a giro collo da cui affiorava il colletto della camicia e il modo di parlare senza giri di parole, caratteristica assolutamente non comune, tra i manager.

La sua frase più famosa: “Vivo nell’era dopo Cristo, ed è inutile fare con me ragionamenti dell’era avanti Cristo!” Cosa intendeva Sergio Marchionne, con tale affermazione? Secondo alcuni, ribadire che ormai fossimo entrati nell’era della globalizzazione, dalla quale non si torna indietro. Come corollario, secondo noi, che era ormai finita l’era di una FIAT tutta italiana: l’azienda al collasso che prese Marchionne 14 anni fa e che ha riportato in auge, trasformandola in FCA e trasferendone la sede legale a Londra.

Ciò che fa bene alla FIAT fa bene all’Italia. Ma era proprio così?

Proviamo allora a fare un excursus dell’era “Avanti Cristo”, quando si diceva che “ciò che fa bene alla FIAT, fa bene all’Italia”. La “Fabbrica Italiana Automobili Torino”, fondata nel 1899dal senatore Giovanni Agnelli (senior) s’ingigantì beneficiando del successo della “Topolino” e, soprattutto, delle commesse di armamenti di uno Stato che, in trentacinque anni, volle intraprendere due guerre mondiali, due guerre coloniali, la guerra civile spagnola e l’invasione dell’Albania.

Quando il senatore scomparve, essendogli premorto il figlio Edoardo e dedito ad imprese galanti il nipote Gianni, il timone dell’azienda passò a Vittorio Valletta, che fece dell’utilitaria il suo cavallo di battaglia. La FIAT inondò l’Italia di 500, 600, 1100 e 850 e i governi la spalleggiarono costruendo migliaia di chilometri di autostrade e concedendole l’esclusiva sulle auto blu statali. La FIAT si espanse all’estero, acquistando la spagnola SEAT, la jugoslava Zastawa e aprendo stabilimenti in Unione Sovietica, in Germania, in Svezia, in Belgio e in Argentina.

Finalmente nel 1966, il bastone del comando passò all’avvocato Gianni Agnelli ma le scelte non furono così brillanti. Si cominciò cedendo la SEAT alla Volkswagen e poi acquistando LanciaAutobianchi Alfa Romeo, per mandarle al limite del fallimento. Fu acquistata anche la Ferrari, che l’avvocato volle tenersi come biglietto da visita. La sua vision era quella di acquisire il monopolio automobilistico in Italia per imporre al consumatore modelli più costosi e remunerativi.

Nacquero allora le 127, le 128, le 124 e le 125, accanto alla più modesta 126. Di più, la FIAT dette il via a una specie di dumping industriale: all’estero mise sul mercato auto superaccessoriate a basso costo per battere la concorrenza; in Italia, vetture di serie a prezzi alti. La FIAT superò la Volkswagen divenendo il primo produttore automobilistico europeo e il numero dei suoi dipendenti toccò i 160.000.

La marcia dei “colletti bianchi”

In Italia, però, ben presto si cominciò ad acquistare “straniero”. Per ridurre i costi di produzione, l’avvocato volle lanciare il modello dell’azienda automatizzata, facendosi finanziare da Gheddafi: più robot e meno dipendenti; i sindacati iniziarono la lotta dura, senza paura. L’avvocato tenne duro, sinché, nel 1980, 40.000 “colletti bianchi” scesero in piazza per dargli ragione. Iniziarono i licenziamenti e la cassa integrazione.

Nel frattempo, però, si valorizzò il settore auto, assumendo il designer Giorgetto Giugiaro, che lanciò modelli come la Panda e la Uno che riscossero un successo mondiale. La 126 fu fatta costruire in Polonia, per risparmiare sul costo del lavoro. Ma la rinascita della FIAT durò lo spazio di un quinquennio. Cesare Romiti convinse l’avvocato a dar centralità alla finanza, piuttosto che all’automobile. Nel 1990, i dipendenti FIAT, in Italia, erano scesi a 120.000.

Il decennio di fine secolo, per la FIAT, fu un calvario. Alla rinuncia del segmento delle utilitarie non corrispose un analogo successo in quello medio-alto, che rimase appannaggio dell’industria tedesca, francese, giapponese e statunitense. In Italia, il numero delle auto prodotte calerà a picco, mentre in Germania, la produzione sarà sestuplicata.

Marchionne trova una FIAT sull’0rlo del fallimento

Fu questa la FIAT dell’era “avanti Cristo” che Sergio Marchionne prese in mano, succedendo all’avvocato Agnelli, dopo una breve reggenza del fratello Umberto. Marchionne abbandona la Confindustria dicendo: “Quando si perdono due milioni di euro al giorno e uno pensa che sia colpa degli operai, vuol dire che ha saltato qualche ponte per strada!” Ma disse pure che sul mercato mondiale c’erano troppi marchi a farsi concorrenza e, per sopravvivere bisognava acquisirne qualcuno. Con uno sforzo incredibile FIAT a acquistò la Chrysler e la Jeep e divenne FCA.

La FIAT passò da una situazione di sostanziale default (si reggeva solo perché alcune banche gli avevano concesso di non soddisfare i propri debiti) a una situazione di pareggio finanziario, con il titolo in borsa rivalutato di dieci volte in 14 anni. I ricavi 2017 sono ammontati a 111 miliardi di euro. Nel frattempo, i dipendenti in Italia, sono scesi a soli 29.000 ma in un ramo (quello italiano) che è l’unico deficitario della holding. Marchionne se ne è andato prima di risanare anche questo nodo, che per noi italiani era il più importante. Una cosa è certa: chi gli succederà sarà sicuramente meno intelligente e meno “lapidario” di lui.

Scrivi

La tua email non sarà pubblicata

Per inserire il commento devi rispondere a questa domanda: *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.