Processo e prova scientifica. Da Garlasco a Perugia: quali verità?

investigazioniÈ di pochi giorni fa la notizia che il DNA trovato sotto le unghie di Chiara Poggi, assassinata brutalmente nella sua casa una mattina di agosto di sette anni fa, sarebbe compatibile con quello di Alberto Stasi, fidanzato della vittima ed attualmente unico imputato per l’omicidio nel processo d’appello bis che si sta svolgendo in queste settimane a Milano.  

Un altro caso risolto grazie al DNA?

Non proprio, perché, in realtà, compatibilità non significa identità, soprattutto in questo caso in cui il confronto genetico ha evidenziato solo cinque punti di contatto, ossia cinque compatibilità su diciassette mentre normalmente, per poter esprimere un giudizio di piena compatibilità, ne servono almeno la metà più uno. L’avvocato di Stasi fa quindi sapere che il risultato ottenuto non costituisce affatto un dato significativo ai fini processuali, in quanto i pochi marcatori genetici individuati sono comuni a quelli di molte altre persone di sesso maschile.

Ciò che aveva inizialmente fatto sperare in una svolta, era che il materiale biologico repertato sulle mani della vittima presentasse tracce di cromosoma Y, ossia di DNA riconducibile a persona di sesso maschile, facendo confidare, quindi, in una risposta scientifica e perciò certa, circa l’identità dell’assassino.

In realtà, anche in relazione a questo aspetto, le cose non sono così semplici poiché la Comunità Scientifica è unanime nel ritenere che il cromosoma Y abbia significato soltanto ai fini dell’esclusione di un sospettato, mentre non può essere utilizzato per un riconoscimento positivo con conseguente attribuzione di identità.

Questa argomentazione, rimarcata dai legali di Stasi, è la stessa utilizzata anche da un altro collegio difensivo, quello di Raffaele Sollecito anch’egli in attesa di giudizio, l’ultimo, da parte della Corte di Cassazione chiamata nuovamente a pronunciarsi dopo la sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Firenze lo scorso gennaio e prontamente impugnata dai suoi difensori.

Il DNA di Sollecito è stato trovato sul gancetto di reggiseno della vittima, ritrovamento sempre contestato dalla difesa sulla base di presunte contaminazioni ambientali ed anche in virtù della scarsa quantità in cui era presente sulla scena del delitto il materiale genetico dell’imputato, soprattutto in considerazione dello stato dei luoghi e del tipo di azione delittuosa posta in essere ed attribuita a Sollecito.

Entrambi i casi sono molto complessi, ricostruire la dinamica di un omicidio non è semplice, soprattutto a distanza di anni, per questo si ricorre sempre più spesso alla cosiddetta “prova scientifica” alla quale ci si affida ciecamente sulla base del pregiudizio per cui “scienza è uguale a certezza assoluta”, ma, purtroppo, così non è.

La scienza è fallibile ed in continua evoluzione, motivo per cui non può dare risposte e soluzioni assolute e definitive. La prova scientifica ha, in realtà, lo stesso valore probatorio di tutte le altre prove, con l’ulteriore limite dato dalla difficoltà di inserire ed interpretare correttamente il dato scientifico nel contesto giudiziario.

Non bisogna mai dimenticare che il risultato ottenuto attraverso un accertamento tecnico è solo il pezzo di un puzzle più grande composto dall’insieme delle prove raccolte e soltanto quando tutti gli elementi convergono nella stessa direzione il giudice potrà formare il suo convincimento al di là di ogni ragionevole dubbio.

Oggi, grazie ai progressi fatti dalla genetica forense, nelle aule di tribunale c’è uno strumento in più per accertare i fatti, ma non si deve mai dimenticare che della scienza non può farsi un utilizzo parziale, o soggettivo, che si pieghi alle necessità processuali.

Se il fine ultimo dell’intera attività giudiziaria è quello di accertare la verità e pronunciare una sentenza secondo giustizia, tale fine va perseguito e raggiunto attraverso la corretta formazione della prova e dell’uso appropriato di tutti gli strumenti a disposizione, altrimenti si rischia di rendere l’intero processo una farsa e la sentenza emessa una falsa verità.

Il tutto in nome del popolo italiano.

di Gloriana Rescigno

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