Mio padre si chiamava Giorgio Perlasca

Franco Perlasca è il figlio di Giorgio Perlasca, il quale, nell’inverno del 1944, a Budapest, salvò dallo sterminio nazista 5200 ebrei, praticamente da solo. Si finse un diplomatico spagnolo per poter così rilasciare dei salvacondotti falsi. Perlasca appartiene alla categoria dei Giusti, protagonisti della Storia che hanno messo a repentaglio la propria vita per salvare gli ebrei durante l’Olocausto. Giorgio Perlasca tacque per decenni, non raccontò la propria impresa nemmeno alla sua famiglia e la sua storia rimase nascosta per 45 anni. Franco oggi si occupa di tramandare la memoria del padre, scomparso nel 1992, attraverso interventi pubblici e conferenze.

Franco, che rapporto ha avuto con suo padre?

Per tanti anni un rapporto normale di padre e figlio. Era nato nel 1910 e quindi la sua educazione, la sua cultura erano frutto di quell’epoca; quindi era severo, aveva le sue regole inderogabili, non dava grande confidenza. Non giocava con me, ad esempio, semplicemente in quanto il ruolo del padre, formato in quegli anni, non era questo, non lo prevedeva. Oggi può apparire strano ma a fine anni ‘50 inizio anni ‘60 era quasi la normalità.

Solo dopo la sua scomparsa, mettendo a posto le carte lasciate, mi sono accorto delle tante volte che per dare a me un qualcosa lui (e mia mamma) avevano fatto sacrifici e rinunce, senza dirlo o farmelo pesare. 

Come e quando la sua famiglia ha saputo la storia di Giorgio Perlasca?

 Correva l’anno 1987; prima sapevamo che durante la guerra era stato in Ungheria e aveva visto cose terribili, ma nulla di più. Sono figlio unico e nato nel 1954; ricordo benissimo che quando ero ragazzino raccontava della sua vita a Budapest durante la guerra. Ma erano episodi limitati, ove l’orrore era nel fondo, e narrava essenzialmente del modo di vivere ungherese, delle meraviglie della città di Budapest. Ricordo che parlava della grande piscina coperta delle terme Gellert (esistono anche oggi) con le onde. Quindi nessuno in famiglia sapeva quello che aveva fatto; in sostanza nemmeno mia madre (si erano sposati nel 1940 ma causa guerra furono separati per almeno due anni, lei a Trieste ove abitava, lui a Budapest). Forse qualcosa in più sapeva ma certo non la storia nella sua completezza.

A fine anni ‘80 in Europa succede un fatto importantissimo; il muro di Berlino, la cortina di ferro cominciano a scricchiolare e in Est Europa cominciano ad avere qualche libertà in più, che prima non esisteva; i viaggi e la trasmissione delle idee, della cultura, delle notizie diventano possibili, specie in Ungheria che diventa il paese più liberale del blocco sovietico. Molti salvati non hanno dimenticato questo console spagnolo, Jorge Perlasca, anche se sono passati oltre 40 anni. Lo hanno custodito nel cuore in attesa di tempi migliori, nella speranza di poterlo ringraziare e incontrare. E quindi iniziano la ricerca, mettendo assieme testimonianze, notizie attraverso un articolo apparso sul giornale della Comunità ebraica ungherese. Arrivano decine e decine di testimonianze, con nomi e cognomi.  Trovarlo non è semplice. Ma attraverso salvati scappati dall’Ungheria dopo la guerra, specialmente una signora che abitava a Berlino, riescono a capire che non era un vero spagnolo e a ritrovarlo a Padova, in via Marconi 13. E capiscono che non era nemmeno un vero diplomatico.  E’ un signore che va per gli 80 anni, con qualche problema di salute, pensionato.

In Italia per riprendere i contatti anche fisici viene, in rappresentanza dei salvati, la signora Eva Lang assieme al marito.

Un viaggio non semplice, come oggi; le frontiere esistono in Europa, l’Italia per loro non è a buon mercato e quindi approfittano di un viaggio organizzato che tocca le principali città d’arte italiane. Roma, Firenze e Venezia, che è vicina a Padova. Il gruppo soggiorna a Padova, città meno cara di Venezia. Il giorno della visita a Venezia, loro rimangono a Padova, hanno un appuntamento a cui non possono mancare; nei giorni precedenti avevano telefonato a casa di mio padre per fissare un incontro, di sabato pomeriggio.

Ero sposato quindi non vivevo a casa dei miei, ma il destino – io penso – volle che fossi presente assieme a mia moglie; sono quegli incontri, quegli episodi che ti segnano e ti rimangono per sempre nella mente e nel cuore. Ricordo l’arrivo di queste due persone, Eva e Pal Lang; suonano il campanello e iniziano a salire le scale di casa con una emozione che si percepiva. Una emozione che poi, quando vedono mio padre, si trasforma in lagrime di gioia.

Seduti in salotto cominciano a ricordare tanti episodi dell’inverno 44 – 45 a Budapest, nelle case protette, e cercano di far ricordare a mio padre il loro nome, il loro volto. Mio padre ricorda gli episodi ma non il loro volto; erano passati più di 42 anni e loro erano ragazzi allora.

Al momento del commiato la signora Lang, dando appuntamento a mio padre a Budapest, ove poi lui si recò l’anno seguente, invitato dal Governo ungherese e dalla Comunità ebraica, gli lasciò in mezzo a tanti regali, tre piccoli grandi oggetti: un cucchiaino, un medaglione e una tazza; gli unici oggetti – disse – che la famiglia Lang aveva salvato dal disastro della seconda guerra mondiale. Mio padre non voleva prenderli e disse alla signora che li doveva tenere lei e darli al momento opportuno ai figli, a ricordo della famiglia. Ecco, la signora Lang pronunciò una frase che anche oggi mi fa emozionare e chi mi fece capire la grandezza da una parte e la drammaticità dall’altra di quanto era avvenuto “ Signor Perlasca, li deve tenere lei, perché senza di lei non avremmo avuto nè figli nè nipoti”

Come è stato vivere sapendo di essere figlio di uno dei grandi Giusti della storia?

All’inizio non è stato semplice per me; forse rimproveravo a mio padre di non avermelo raccontato direttamente, forse non accettavo d’essere venuto a conoscenza quasi per caso e coinvolto in una storia enorme, inaspettata. Fatto sta che per parecchi anni mi estraniai da questa storia; venivo sempre invitato ma trovavo tutte le scuse per non esserci. Mio padre scompare nel 1992. Anche negli anni seguenti venivo invitato in moltissimi posti ma cercavo sempre di defilarmi. Andavo solo dove vi erano rapporti anche personali per cui un rifiuto diventava impossibile. E arriviamo al 1996, quando esce sotto forma di libro il suo diario. Ricordo che telefona una casa editrice (il Mulino) chiedendoci se in famiglia abbiamo qualcosa in contrario alla pubblicazione dei diari di mio padre: ovviamente ne siamo contenti. Durante una delle presentazioni, succede un fatto per me importantissimo, che mi cambiato la vita e cioè l’incontro con un salvato. Siamo a Teolo, provincia di Padova, che è stato il primo comune in Italia a dedicare a papà un luogo pubblico (una piazza in quel caso) due anni dopo la sua scomparsa, nel 1994. Bella sala, piena, vari relatori che dovevano portare la loro testimonianza,  quando – si sta per iniziare – un signore chiede la parola. Nessuno lo conosce. Prende il microfono, si presenta “mi chiamo Giorgio Pressburger e sono uno dei salvati da Giorgio Perlasca”. E inizia a raccontare in diretta la sua storia in quei mesi terribili della Budapest tra il ’44 ed il ‘45. Silenzio assoluto del pubblico.  Quando termina tutti noi che dovevamo dire qualcosa, capiamo che nulla vi è ancora da dire, ogni parola diverrebbe inutile. Mi precipito da questo signore per sapere come era capitato lì quel pomeriggio. Mi dice di essere uno scrittore e di vivere a Trieste dopo essere scappato dall’Ungheria quando venne invasa dalle truppe dell’Armata rossa nel 1956 e di essere diventato cittadino italiano. Aveva scoperto qualche anno prima di essere uno dei salvati, vedendo la trasmissione televisiva Mixer e di aver riconosciuto il palazzo ove era rifugiato in quei mesi, nella Szent Istvan Park.

Aveva sentito il dovere morale di portare la sua testimonianza quando aveva visto un trafiletto sul giornale sulla presentazione del libro e d’aver preso il treno a Trieste per Padova e il taxi da Padova a Teolo.

Ecco, questo episodio mi ha cambiato la vita e modo di pensare; probabilmente negli anni precedenti avevo metabolizzato quanto avvenuto ed avevo bisogno solo d’una conferma, una spinta finale che mi facesse comprendere che una storia come quella di Giorgio Perlasca non poteva essere dimenticata, buttata via, talmente era (ed è) importante essendo la dimostrazione che chiunque di noi, al di là dei ruoli, qualcosa può fare per opporsi al male. Basta abbia la voglia di non voltarsi, di non far finta di non vedere quello che avviene.

Dal 1996, inizialmente in maniera timida poi in maniera sempre più importante, ho cercato con mia moglie di tenere viva questa storia, talmente era bella e piena di significati specialmente per le nuove generazioni.

A proposito di nuove generazioni, oggi lei si occupa della Fondazione intitolata a suo padre ed incontra i giovani nelle scuole di tutta Italia. Quale pensa possa essere il valore dell’esempio della storia di Giorgio Perlasca?

Un valore assoluto, estremamente importante moralmente e eticamente. Molte scuole lo inseriscono nei progetti sulla Memoria, altre in quelli relativi alla legalità.  E’ una storia che affascina i ragazzi; un uomo qualunque, senza potere e ruolo, che s’inventa d’essere diplomatico spagnolo anche se non era spagnolo e nemmeno diplomatico e in questo modo salva almeno 5200 ungheresi di religione ebraica. E’ la dimostrazione provata che ciascuno di noi può fare qualcosa, nelle piccole o grandi cose del mondo, al di là del ruolo. E poi affascinano i suoi quasi 45 anni di silenzio, in quanto tornato in Italia non cerca di vendere la sua storia magari per ottenere qualcosa in cambio, ma torna, come un vero Giusto, alla quotidianità anche difficile e complicata, di quegli anni del dopoguerra. E senza il destino che gli mandò nel 1987 quelle donne ebree ungheresi, la sua storia sarebbe andata dispersa.  Pensavo che dopo la sua scomparsa  il ricordo sarebbe se non scomparso molto ridotto. Invece devo dire che così non è: anno dopo anno la voglia di ricordare queste persone, i Giusti, cresce. Probabilmente la mancanza di valori morali che oramai permea la nostra società fa sì che di persone così, che incarnano esempi positivi, si senta la necessità, anche per creare coscienze attente non solo ai propri interessi ma al bene comune. E questo è molto importante; lanciare dei piccoli semi specie nelle giovani generazioni che magari porteranno dei frutti o sbocceranno fra qualche anno.

Grazie, Franco, in memoria perenne dell’esempio di tuo padre Giorgio Perlasca.

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