Le avventure paradossali di Gargantua e il potere del riso 

gargantua

Nella lingua italiana esiste la parola “gargantuesco”, che è sinonimo di “enorme”, “gigantesco”, “smodato”.  Il termine rimanda al vorace Gargantua (da garg- = “gola”, gozzo”), gigante letterario che insieme al figlio Pantagruele si muove a son di avventure paradossali nei cinque romanzi scritti tra il 1532 e il 1564 dall’intellettuale umanista François Rabelais. L’opera complessiva, nota appunto come Gargantua e Pantagruele, è considerata uno degli esempi più importanti di letteratura carnevalesca. Questo perché pone al centro il riso, la dissacrazione e l’irriverenza. Elementi che tuttavia celano uno scopo serio: smascherare le ipocrisie del potere, del mondo religioso e della cultura ufficiale della Francia rinascimentale. 

Il potere del riso

Nel libro della serie intitolato Gargantua, il Prologo dell’autore è preceduto da alcuni versi che suonano come una sorta di avvertenza. Qui Rabelais si rivolge direttamente ai lettori e scrive: «Cari amici, se leggermi vorrete/liberatevi prima d’ogni affanno/e leggendo non vi scandalizzate:/qui non c’è né miasma né malanno./Vero è che ben poco crescerete/in perfezione salvo che nel ridere./Ma qual più degno tema in cuore eleggere,/tanto è il duol che vi strugge e vi fa piangere?/Meglio di riso che di pianto scrivere/poiché è dell’uomo e di lui solo il ridere».

L’autore pone il riso come una caratteristica tipicamente umana, espressione privilegiata della capacità di ragionare. Saper usare sapientemente l’ironia significa ribaltare la realtà per indagarla più a fondo. Essere pronti a ricorrere anche alla disarmonia, al grottesco e alla sproporzione per svelare la verità che si cela dietro le apparenze. Ma anche accettare il fatto che la vita è movimento, dunque tutto è relativo e non esistono risposte definitive. Non a caso una delle figure su cui si ironizza nel Gargantua è quella dell’intellettuale pedante che pensa di sapere tutto solo perché conosce i dogmi su cui si fonda la cultura ufficiale. 

L’abito non fa il monaco

A quello del pedante si contrappone l’esempio di Socrate, il filosofo che “sa di non sapere” e che per questo procede per domande invece che sulla base di certezze granitiche. Nel Prologo anche Socrate viene descritto come «ridicolo nel portamento» e «sempre di umor faceto». Rabelais dice che «a vederlo da fuori, a giudicarne dall’aspetto, non gli avreste dato una pelle di cipolla». Tuttavia, dietro l’aspetto poco distinto si nascondono innumerevoli pregi («intendimento più che umano, virtù meravigliosa, coraggio invincibile, sobrietà ineguagliabile…»). Il filosofo della maieutica è come i piccoli vasi detti Sileni, che all’esterno sono decorati con figure grottesche e all’interno contengono le essenze più pregiate. Come gli ossi che i cani caparbiamente rosicchiano per gustare la dolcezza del midollo.

Il fine di tutte queste metafore è chiaro: dimostrare che l’abito non fa il monaco. Allo stesso modo neanche un titolo burlesco fa dell’opera un misto di «motteggi, stravaganze, allegre panzane». Infatti, dice Rabelais, quando all’interno del libro ci sono argomenti giocosi bisogna andare oltre le apparenze e «interpretare in senso più alto» il messaggio. È solo così che dietro le vicissitudini inverosimili e caricaturali di un gigante nato dall’orecchio sinistro di una gigantessa potremo scorgere la malinconia di una società in sofferenza che deve essere consolata. 

Foto di Leonie Schoppema da Pixabay

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