La tragica storia di Piccarda e l’importanza della Carità 

carità

«I’ fui nel mondo vergine sorella;/e se la mente tua ben sé riguarda,/non mi ti celerà l’esser più bella,/ma riconoscerai ch’i son Piccarda/che, posta qui con questi altri beati,/beata sono in la spera più tarda». Siamo nel pieno della Commedia dantesca. III Canto del Paradiso. Primo Cielo, quello che corrisponde alla Luna. Dante si è imbarcato da poco nella narrazione impossibile del regno di Dio. Dal poco che la sua limitata memoria di essere umano riesce a trattenere sbuca l’anima di Piccarda Donati, luminosa e evanescente come un riflesso nell’acqua. 

Piccarda non è sola, è circondata dagli altri beati che come lei sono collocati al grado più basso di beatitudine. Sono detti spiriti difettivi perché in vita sono stati inadempienti rispetto ai voti pronunciati. Queste anime risiedono nel Cielo della Luna perché secondo le credenze del Medioevo l’influsso del satellite rendeva le persone incostanti. Eppure la vicenda di Piccarda non denuncia affatto la presenza di un’indole incostante. Dimostra bensì una fede che non ha smesso di ardere nemmeno di fronte al sopruso.

La tragica vita di Piccarda Donati

Piccarda Donati è l’ennesima donna della Commedia che in vita ha dovuto sacrificare i propri desideri alle scelte degli altri. Come Francesca da Polenta (protagonista del Canto V dell’Inferno) e Pia de’ Tolomei (che compare nel Canto V del Purgatorio), anche lei è andata incontro a un matrimonio infelice. Ancora giovanissima Piccarda entra per vocazione nel convento di S. Chiara a Firenze. Il fratello Corso per motivi di convenienza politica la dà in sposa a Rossellino della Tosa, un violento esponente dei Guelfi Neri. Con l’aiuto di altri facinorosi la fa rapire dal monastero e la fa sposare contro la sua volontà.

Un’avventura tragica che il Sommo Poeta riesce a narrare con grande intensità in sole due terzine: «Dal mondo per seguirla [Santa Chiara], giovinetta/fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi,/e promisi la via de la sua setta./Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,/fuor mi rapiron de la dolce chiostra:/Iddio si sa qual poi la mia vita fusi». Queste parole le pronuncia Piccarda stessa, la quale nel nascondere il nome del fratello Corso dietro il termine generico “uomini” e affermando quasi per giustificarlo che tali uomini sono abituati a fare più del male che del bene, dimostra il suo grande spirito di carità.

La Carità e la volontà di Dio

Ed è proprio la Carità con la “c” maiuscola che Piccarda rappresenta in questo canto. Grazie a questa virtù si è guadagnata un posto nel primo Cielo del Paradiso. E sempre grazie alla Carità riesce a non provare il desiderio di avvicinarsi di più a Dio, quindi a non invidiare coloro che risiedono negli altri Cieli. «Frate, la nostra volontà quieta/virtù di carità, che fa volerne/sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta./Se disiassimo esser più superne,/foran discordi li nostri disiri/dal voler di colui che qui ne cerne;/che vedrai non capere in questi giri,/s’essere in carità è qui necesse,/e se la sua natura ben rimiri.»

La Carità consente a Piccarda di accordare la propria volontà a quella di tutti gli altri beati e soprattutto a quella di Dio, il cui volere nel regno dei Cieli è legge universale. Il Paradiso è la dimensione dell’armonia che fa coincidere in modo del tutto naturale la volontà con il dovere. Un luogo di riscatto dai dolori patiti nel mondo, dove il più delle volte i desideri sono negati e i più forti decidono per i più deboli seguendo la logica dell’interesse.

Foto di Jackson David da Pixabay

1 risposta

  1. maurizio militello

    Ringrazio sinceramente l’autrice, Vanessa Lucarini, per il brillante, dotto, e prezioso commento, del verbo dantesco, sempre transumanante , e pertanto di non facile interpretazione…

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