La Scuola Siciliana e la lingua ritrovata

scuola siciliana

«Pir meu cori alligrari/ chi multu longiamenti/ sanza alligranza e joi d’amuri è statu» cantava il poeta messinese Stefano Protonotaro in uno dei componimenti più famosi della poesia delle origini. Siamo nel XIII secolo, nel Regno delle Due Sicilie, alla corte di Federico II di Svevia. Un contesto culturale particolare e innovativo in cui prende vita il primo movimento unitario e istituzionale della nostra letteratura: la Scuola Siciliana. Si tratta di una scuola di poeti-funzionari che servivano il re scrivendo poesie in volgare siculo a tema amoroso.

L’amore e la lingua

Nella canzone del Protonotaro troviamo un poeta frustrato perché non corrisposto dalla donna amata. Per rallegrare il suo cuore egli riprende a comporre poesie, nobilitando quel sentimento tanto alto da venir trattato come un illustre personaggio in carne ed ossa. Siamo davanti a un amore con la “A” maiuscola, grande nella misura in cui i sospiri dell’innamorato respinto riescono a suscitare versi di raffinata bellezza. Un amore che — come nel caso dello Stilnovo — nobilita l’artista e lo rende un privilegiato rispetto alla donna corteggiata. Basta pensare che in tutta la produzione degli esponenti del movimento (da Jacopone da Todi a Giacomo da Lentini, da Pier delle Vigne allo stesso Protonotaro) le tre parole più ricorrenti sono amore, core e donna.

Rimanendo nell’ambito del linguaggio, in Pir meu cori alligrari troviamo anche un meraviglioso esempio di vocalismo siciliano (con le “a”, “i” e “u” in posizione atona) e la tipica desinenza “-ia” per i condizionali (es. tumiria,siria) che è rimasta anche nei dialetti siciliani moderni. Non mancano nemmeno francesismi e soprattutto provenzalismi. Essi sono riconoscibili grazie alla desinenza “-anza” (es. alligranza, dimustranza…) e testimoniano un forte legame tra la poesia della Scuola Siciliana e la lirica amorosa in lingua d’oc. 

La toscanizzazione dei testi e il recupero della lingua originaria

Per quanto riguarda la conservazione della veste linguistica originaria della poesia siciliana, il componimento del Protonotaro riveste un ruolo da protagonista. Pir meu cori alligrari infatti è uno dei pochi documenti pervenuti fino a noi in autentico volgare siculo. La ragione è tutta politica. Dopo la morte di Federico II (1250), Carlo I d’Angiò stabilì la supremazia angioina sul Regno delle Due Sicilie e distrusse tutta la produzione poetica rappresentativa della dinastia precedente. Fortunatamente la fama della lirica siciliana aveva già raggiunto il resto d’Italia e le sapienti penne dei copisti toscani. Il problema fu che trascrizione dopo trascrizione, con una progressiva toscanizzazione dei testi, la lingua originaria si perse. 

Per secoli gli studiosi credettero che i siciliani poetassero in una lingua sovraregionale simile all’italiano moderno. Convinzione che venne smentita nel XVIII secolo con il ritrovamento delle Carte di Giovanni Maria Barbieri, un erudito del Cinquecento. Per ragioni non chiare, Barbieri era riuscito a entrare in possesso di un testo ormai perduto noto come Libro siciliano, e ne aveva annotato fedelmente alcuni componimenti. Tra questi c’era Pir meu cori alligrari, l’unica poesia copiata integralmente. Così facendo Barbieri ha fatto sì che ai poeti della Scuola Siciliana venisse restituita quella lingua illustre che perfino Dante decanta nel De Vulgari Eloquentia; ma soprattutto ha salvato le parole di Stefano Protonotaro, consegnandole ai posteri così come il poeta le aveva lasciate.

Foto di Prawny da Pixabay 

Scrivi

La tua email non sarà pubblicata

Per inserire il commento devi rispondere a questa domanda: *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.