La prima ferita. Dalla dea violata al corpo della donna moderna

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Ci sono ferite che sembrano antiche quanto la memoria dell’uomo. Una di queste è la violenza sulle donne, che non appartiene soltanto al presente ma attraversa la storia come una voce sommersa. Cambia lingua, cambia volto, ma continua a farsi udire, lasciando dietro di sé la traccia di un potere che ha confuso la forza con il diritto. È un dolore che si rinnova di epoca in epoca, nascosto nei miti, nelle leggi e nelle parole che hanno plasmato la civiltà. Comprendere quella ferita originaria significa interrogare la radice più profonda della nostra cultura, nel punto in cui l’esistenza ha smesso di essere relazione per farsi possesso

La donna e la memoria della prima violenza

Ogni anno, quando la società torna a contare le donne uccise (in Italia, 77 casi monitorati di femminicidio nel 2025), la memoria collettiva riapre un’antica ferita. Questo genere di violenza, però, non nasce nel presente: viene da lontano, dalle prime storie con cui l’umanità ha cercato di spiegare se stessa.
Nelle cosmogonie più antiche, ad esempio, la donna rappresentava la continuità della vita, l’armonia tra la terra e il cielo, la capacità di generare e di custodire. Poi, con il passare dei secoli, la forza si fece potere e il potere impose la sua legge. Così la Dea scomparve e il femminile, da principio vitale, divenne principio di colpa.

Il terrore è donna

Da quel momento, la figura della donna cominciò a essere raccontata come minaccia. Lilith, che secondo la tradizione ebraica fu la donna creata prima di Eva e che rifiutò di sottomettersi ad Adamo, venne esclusa dal mondo degli uomini.

Su Pandora, la prima donna della mitologia greca, plasmata dagli dèi come strumento di punizione, cadde l’accusa di aver portato nel mondo tutti i mali. Cassandra, la profetessa troiana che osò dire la verità agli uomini di potere, fu condannata a non essere creduta.
In ciascuna di queste figure, il potere costruì la propria difesa, punendo la conoscenza, la parola e la libertà (le stesse libertà per cui, ancora oggi, molte donne vengono uccise). La violenza, così, entrò nel racconto e si trasformò in lezione: insegnò l’obbedienza, scoraggiò l’indipendenza, stabilì chi poteva parlare e chi doveva tacere.
E proprio da quelle narrazioni, che già contenevano la paura della donna libera, nacque più tardi il linguaggio della tragedia.

Mito e tragedia

Quando la Grecia antica portò il mito sulla scena, quella ferita divenne pubblica. Nella Orestea di Eschilo, Clitemnestra viene uccisa per aver restituito la morte con la morte; in Euripide, Medea, straniera e madre, paga la sua ribellione con l’esclusione e il dolore; in Sofocle, Antigone sceglie la pietà contro la legge e viene murata viva. Insomma, ogni volta la libertà femminile appare come una colpa da espiare.
Queste donne, tuttavia, non sono mostri né eccezioni, ma specchi nei quali il potere maschile riflette la propria paura. La loro condanna è la misura dell’ordine che le vuole controllare. Eppure, dentro il dramma, qualcosa cambia. Nella voce di Clitemnestra, di Medea, di Antigone, la sofferenza diventa conoscenza, e quest’ultima diventa coscienza collettiva. La Grecia, che inventò la democrazia, non seppe immaginare la libertà delle donne, ma attraverso le sue tragedie ne riconobbe almeno il grido. Da quel grido nacque, forse, l’idea stessa di giustizia, che non è norma ma desiderio di riscatto.

Dal divino al domestico

Con la tradizione biblica la trasgressione si fece peccato. Eva, tratta dall’uomo, venne indicata come causa della caduta, e la maternità, che un tempo portava il segno del sacro, si trasformò in pena. L’Occidente cominciò così un lungo cammino che lo condusse dalla Dea alla moglie, dal principio creatore al modello dell’obbedienza.
Nel diritto romano come nella morale cristiana, la donna fu posta sotto tutela. Era figlia, sposa, penitente: mai soggetto pieno. Il suo corpo non le apparteneva e la sua parola era sorvegliata. Durante il Medioevo la sua immagine venne divisa in due archetipi opposti, la Vergine e la Peccatrice, senza che tra le due vi fosse spazio per la complessità. Maria incarnava la purezza silenziosa, Eva la tentazione. E chi tentò di uscire da quella dualità divenne sospetta.
Tra il Quattrocento e il Seicento il sospetto si trasformò in persecuzione. La caccia alle streghe non distrusse solo i corpi, ma anche i saperi: la conoscenza delle erbe, la sapienza del parto, il rapporto con la terra. Il fuoco, che si pretendeva purificatore, servì a cancellare la memoria di un sapere femminile troppo libero. E anche quando i roghi si spensero, quella logica di controllo sopravvisse, più sottile e più tenace.

Il marchio e i diritti negati

Quando l’Europa uscì dal Medioevo, la violenza cambiò forma ma non sostanza. Si fece invisibile, si nascose dietro la morale. Nella Lettera scarlatta di Hawthorne, Hester Prynne porta sul petto la lettera dell’adulterio, segno di una colpa che la società pretendeva di rendere eterna. La libertà femminile continuò così a essere percepita come ferita da esibire e da punire.
Nemmeno la modernità fu più giusta. L’Illuminismo proclamò i diritti dell’uomo, ma non quelli della donna. La Rivoluzione francese, che prometteva uguaglianza, condusse Olympe de Gouges alla ghigliottina per aver osato reclamare una Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. Eppure, la libertà, se resta privilegio di un solo sesso, non è libertà ma continuità del dominio.

Il possesso e la paura

Ogni forma di potere nasce da una paura, e quella dell’uomo è antica: la paura della libertà dell’altro. Chi ha imparato a esistere attraverso il controllo percepisce l’autonomia altrui come minaccia. Da qui la violenza, che diventa linguaggio. Si manifesta nella parola che sminuisce, nell’ironia che ferisce, nel pronome di possesso che trasforma l’amore in appartenenza.
Dire “la mia donna” o “la mia ex” significa ridurre l’altro a proprietà, confondere la relazione con la conquista. In questa sostituzione dell’avere all’essere si consuma la fragilità di chi domina. Ogni violenza è, in fondo, la confessione di un’identità che teme di dissolversi.
Quella stessa paura attraversa i secoli e muta soltanto forma. È la paura che giustifica la segregazione domestica, i matrimoni imposti, le lapidazioni, i femminicidi, i silenzi imposti dalla consuetudine. Dalla pietra al tribunale dei social di oggi, il corpo femminile resta il luogo simbolico in cui il potere esercita se stesso.

Dalle mura al mondo

In Italia, come altrove, la violenza contro le donne non è una statistica ma una lente attraverso cui leggere la società. Ogni anno molte vengono uccise da uomini che dicevano di amarle, spesso tra le mura di casa. Eppure non è un dramma solo occidentale. Pensiamo, ad esempio, a Paesi come l’Iran, l’Afghanistan, il Sudan, dove il corpo delle donne continua a essere terreno di controllo sociale. A volte la violenza non si mostra apertamente: si traveste da tradizione, si nasconde nel costume, si giustifica come onore. E in ogni forma, qualunque sia il contesto, resta la stessa paura — quella della libertà, cioè la ferita più antica e la più difficile da curare, perché si nutre del silenzio.

Le parole e il sangue

Oggi il linguaggio tenta di risanare ciò che la storia ha ferito, ma anche le parole, quando si svuotano di senso, rischiano di diventare gusci vuoti.
“Patriarcato”, “femminicidio”, “violenza di genere” dovrebbero essere strumenti di pensiero, non etichette. Servono a comprendere, non a separare; a leggere la genealogia del potere, non a sostituirla con nuovi slogan.

Non ogni omicidio di una donna è un femminicidio, ma ogni volta che il gesto nasce dal rifiuto della libertà, il mito si ripete. È ancora Agamennone che sacrifica Ifigenia, Zeus che violenta Europa, Adamo che accusa Eva.
Ogni volta che una donna muore per aver scelto, parlato o amato, si spegne una parte della voce umana — e con essa il linguaggio che potrebbe salvarci.

Finché la storia sarà raccontata dal punto di vista del potere, la ferita non potrà chiudersi. Ma ogni parola che prova a nominarla con verità apre uno spiraglio. Forse la rivoluzione non sarà un gesto, ma un linguaggio capace di restituire alla libertà la sua voce naturale.

Image by Çiğdem Onur from Pixabay

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