La pasta: simbolo dell’identità alimentare italiana

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Stefano d’Atri l’ha definita «un elemento di aggregazione che soddisfa non solo i bisogni di una comunità, ma diviene appartenenza identitaria e sociale» (La storia della pasta – Il CISPAI e l’identità alimentare italiana, Nautilus, n. 6-7/dicembre 2021-gennaio 2022).

Ha affermato Massimo Montanari che «è fuori discussione che la pasta sia un segno identitario dell’Italia a tavola, perfetta immagine di una cultura (non solo gastronomica) che paradossalmente trova nella varietà delle declinazioni locali la sua cifra unificante e distintiva. Centinaia di formati e migliaia di ricette, realizzate con prodotti diversi e con diverse procedure, sono legate a singole città e territori rurali, che in quelle preparazioni riconoscono storie, tradizioni, gusti diversi, disseminando nel paese in modo capillare una cultura del cibo che non ha pari al mondo quanto a varietà e imprevedibilità. Ciascuna forma, ciascuna preparazione ha la sua storia, racconta esperienze e gusti particolari, legami più o meno forti con le produzioni locali o con le offerte del mercato. Questa incredibile varietà di forme e di sapori, che l’industria alimentare tende a restringere – non potendo rappresentarli tutti – ma non ha alcun interesse a cancellare, si riconduce tuttavia a una parola e a una sostanza, la pasta, divenuta ormai da tempo l’icona della cucina italiana» («Il mito delle origini – Breve storia degli spaghetti al pomodoro»).

Un simbolo, quello della pasta, utilizzato anche per identificare l’Italia tout-court, come nella copertina-shock di «Der Spieghel» del 1977 in cui un piatto di spaghetti era condito con una pistola, oppure ha ispirato l’arte: dalla pittura, come nel «mangiatore di spaghetti» di Renato Guttuso, alla poesia, con la raccolta di ricette in versi di Aldo Fabrizi «La pastasciutta», dalla musica leggera («la cacio e pepe de rispetto» de «La dieta» di Luca Barbarossa) alla cinematografia.

Se le due scene cult che hanno per protagonista la pasta sono il balletto sul tavolo con gli spaghetti di Totò e quella in cui Alberto Sordi si avventa sul «macarone» che lo ha provocato, rispettivamente in «Miseria e Nobiltà» ed in «Un americano a Roma», gli esempi dell’uso del valore simbolico della pasta da parte della cinematografia italiana sono numerosi.

La geniale Lina Wertmüller, ad esempio, in «Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto» ha utilizzato gli spaghetti (scotti) per rappresentare, nella prima parte del film, tutto il disprezzo classista della borghese milanese Raffaella Pavone Lanzetti (una straordinaria Mariangela Melato) nei confronti del marinaio siciliano e comunista Gennarino Carunchio interpretato da Giancarlo Giannini, mentre Ettore Scola in «Brutti, sporchi e cattivi», del 1976, ha usato un piatto di maccheroni per il tentativo di avvelenamento del padre-padrone Giacinto Mazzatella, interpretato da Nino Manfredi, per mettere fine alle sue angherie nel degrado della baraccopoli che fa da sfondo al film.

Quando e perché è nata l’identificazione tra l’Italia e la pasta?

Senza la pretesa d’invadere il campo dei ricercatori ed in particolare del Cispai, il Centro interuniversitario di studi e ricerche sulla storia delle paste alimentari in Italia fondato dal compianto Renzo Paolo Corritore e da Stefano d’Atri ed ora presieduto da quest’ultimo, è possibile fare delle ipotesi, a metà tra storia della cucina e costume, per rispondere a queste due domande, ma prima è necessario fare un brevissimo excursus sulla storia della pasta.

Brevissima storia della pasta (che non è nata in Cina)

La storia dell’invenzione cinese degli spaghetti è una bufala anzi, come si dice oggi, una fake news.

A diffonderla, sulla base di un’errata trascrizione de «Il Milione» di Marco Polo, fu il peridico dell’associazione dei pastai nordamericani, The Macaroni Journal, che vi dedicò, nell’ottobre del 1929, un articolo dal titolo: «A saga of Cathay». Niente di più che un artificio propagandistico per promuovere la pasta di produzione nordamericana negando l’originalità di quella italiana.

Studi recenti consentono di affermare l’origine sicuramente italica della pasta anche se le due versioni, quella fresca che si prepara anche a livello casalingo, e quella secca che è un prodotto essenzialmente industriale, sono oggetto di vicende diverse.

La prima risale, come attestano i riscontri archeologici, all’epoca pre-romana e gli stessi Romani, che pure le preferivano la puls, una sorta di polenta, conoscevano le lagane, simili alle lasagne.

La seconda ha avuto necessità di un processo di affinamento delle tecniche più lungo perché si basa quasi esclusivamente sul grano duro, che richiede per l’impasto su larga scala l’uso della gramola, e dell’essiccazione.

Furono con ogni probabilità gli arabi, affinando le tecniche greco-italiche, i primi che giunsero ad un risultato accettabile: nel 1154 lo storico arabo al-Idrisi, nella raccolta di scritti nota come «Libro di Re Ruggero», parla infatti di una località, Trabia, in cui erano in attività molti mulini e dove i pastai realizzavano una pasta a forma di fili che successivamente facevano essiccare e che rappresentano la prima forma documentata di spaghetti.

Se inizialmente le località di produzione – la Sicilia, Gravano Piro (l’odierna Gragnano) in Campania e le località costiere in Liguria, Puglia, Abruzzo e Marche – furono principalmente quelle in cui le condizioni locali consentivano la coltivazione del grano duro e la miglior essiccazione della pasta, nel tempo fu l’industrializzazione a spostare l’asse produttivo soprattutto verso il Nord visto che macchine sempre più sofisticate consentivano prodotti più stabili a prezzi più contenuti.

Un fenomeno, quello della produzione e della diffusione della pasta, che sicuramente non si può riassumere in poche battute e che, come attesta il lavoro del Cispai (www.progettopasta.com), ha avuto moltissime ricadute sul piano storico, economico e antropologico.

Perché e quando la pasta è diventata elemento identitario italiano

La risposta al «perché» la pasta, in particolare quella secca, sia diventata elemento identitario italiano è affidata alla ricerca storico-antropologica, ma un accenno lo ha già fornito Massimo Montanari nel testo citato precedentemente: la pasta, che con l’industrializzazione si è fatta alimento alla portata di tutti, è, assieme, versatile e neutra. Capace di compenetrarsi, per i formati, i condimenti, con tutte le tradizioni culinarie preesistenti, di unificare il gusto salvaguardando le peculiarità territoriali.

La pasta condita con pomodoro e basilico, per casualità o destino, si sovrappone al tricolore nazionale e poco importa che la pasta sia di derivazione mediterranea, il pomodoro sia giunto dal Sudamerica ed il basilico addirittura dall’India perché l’italiano, specie in cucina, è in cuor suo convinto di essere in possesso di un’innata abilità, tutta italiana e non solo culinaria, che gli consente di poter prendere da ogni luogo ingredienti, oggetti, idee, e saperli migliorare grazie alla propria inventiva.

Sul «quando» alcuni indizi inducono a pensare che, a livello di massa, sia un fenomeno iniziato sull’asse centromeridionale alla metà del 1800, completatosi nel secondo dopoguerra, ed al quale abbiano contribuito in misura non trascurabile le diverse comunità di migranti, soprattutto nel continente americano.

Benché, grazie allo scambio interregionale, la pasta secca abbia iniziato probabilmente a diffondersi a Napoli già nella seconda metà del 1600 è certo che alla fine del 1800 essa era diventata l’alimento più popolare.

Scriveva Matilde Serao ne «Il ventre di Napoli» che copre il ventennio tra il 1885 ed il 1905: «Appena ha due soldi, il popolo napoletano compra un piatto di maccheroni cotti e conditi; tutte le strade dei quartieri popolari, hanno una di queste osterie che installano all’aria aperta le loro caldaie, dove i maccheroni bollono sempre, i tegami dove bolle il sugo di pomidoro, le montagne di cacio grattato, un cacio piccante che viene da Cotrone. […] Questi maccheroni si vendono a piattelli di due e di tre soldi; e il popolo napoletano li chiama brevemente, dal loro prezzo: nu doie e nu tre. La porzione è piccola e il compratore litiga con l’oste, perchè vuole un po’ più di sugo, un po’ più di formaggio e un po’ più di maccheroni».

Per quanto riguarda Roma, invece, si può notare che ancora a metà del 1800 in quei due sonetti-menù gemelli del Belli («Er pranzo de li minenti» e «Er pranzo de le minente») che offrono lo spaccato delle pietanze più popolari allora a Roma, la pasta secca è completamente assente.

Risale invece al 1896, circa cinquant’anni dopo i sonetti, la fondazione di una libera società (come allora venivano definiti i circoli) di spaghettari nella trattoria (ora ristorante) che prenderà il nome di «Ai spaghettari» e da allora in poi gli spaghetti diventeranno uno dei simboli della cucina romanesca al punto che a difesa del trittico cacio e pepe-amatriciana-gricia, in cui si è innestata la carbonara, la gastronomia romana ha eretto letteralmente le barricate.

Non poco deve aver influito la produzione locale visto che il Pastificio Pantanella, costruito nella ora centralissima Via dei Cerchi a cavallo tra gli anni ’70 ed ’80 dell’800, è stata la prima fabbrica di Roma.

Negli anni ’30 il fenomeno aveva già avuto diffusione nazionale ed è proprio il libro-manifesto di Marinetti «La Cucina Futurista», con il suo livore, a dare testimonianza di un fenomeno che da localistico, meridionale o addirittura napoletano, si era fatto nazionale. Marinetti, in quel libro, irride alla difesa popolare della pastasciutta, ma in fondo la teme perché la vede maggioritaria e interclassista, immagine di un’Italia capace di sopravvivere a tutto, compreso al suo furore guerrafondaio.

Dopo aver attraversato il secondo conflitto mondiale e le sue restrizioni alimentari (ne «La pasta in nero» che raccoglie gli atti di un Convegno del Cispai se ne racconta la ricerca nel mercato nero) è nel secondo dopoguerra che la pasta divenne l’alimento nazionale per eccellenza, capace di unire il Paese non solo dal punto di vista culinario.

La sua definitiva consacrazione avverrà, a ben vedere, con lo spot del 1985 «Alta società» firmato da Federico Fellini, nel quale la protagonista, dopo aver ascoltato i suggerimenti del maître di un ristorante sofisticato, risponde: «rigatoni».

La pasta nell’identità nazionale degli Italiani all’Estero

Quanto abbia contribuito al carattere identitario della pasta la migrazione italiana non è ancora dato sapere, ma è probabile che, come ipotizzato da Peppino Ortoleva in «La tradizione e l’abbondanza. Riflessioni sulla cucina degli italiani d’America» (Altreitalie 7, gennaio-giugno 1992) non sia stato un contributo marginale partendo dall’assunto per il quale «le comunità che si vogliono coese e radicate nella storia tendono a definire una «cucina materna» collettiva. Nel cibo il gruppo ritrova la sua identità, in un rito perpetuamente rinnovabile».

La pasta secca iniziò in Italia ad essere oggetto di un fitto scambio commerciale interregionale tra le regioni meridionali proprio nel periodo delle prime migrazioni italiane nel continente americano e nei primi anni ’20 era talmente diffusa tra le comunità italoamericane da giustificare una produzione locale degna di rilievo tanto da doversi difendere (con la citata bufala del The Macaroni Journal) dalle importazioni dall’Italia iniziate in modo massiccio dopo che un pastaio abruzzese, Filippo De Cecco, si era aggiudicato la medaglia d’oro World’s Columbian Exposition di Chicago del 1893.

Essa quindi entrò, assieme all’olio d’oliva e al parmigiano, nel ristretto novero degli alimenti tradizionali, e quindi identitari, dei migranti di origine italiana. Ha osservato in proposito Ortoleva che: «nella variegata comunità italoamericana «la difesa delle tradizioni alimentari (che spesso tradizioni non erano, o erano assai più recenti di quanto molti amassero pensare) divenne da subito strumento di aggregazione sociale».

A questo si aggiunga che nel rapporto con le altre etnie nordamericane, anglosassoni soprattutto, la pasta, grazie anche alla ristorazione di matrice italiana, divenne progressivamente un elemento d’identificazione e di apprezzamento delle comunità italiane generando quello stereotipo che vedeva nell’Italia la patria della pasta e della pizza.

Negli anni ’20 due divi hollywoodiani, Mary Pickford e Douglas Fairbanks, che durante la tappa romana della loro luna di miele avevano assaggiato le famose fettuccine «da Alfredo alla Scrofa», contribuirono non poco alla diffusione della pasta nel jet set: negli anni ’50-’60 tutti gli attori che vennero nella Capitale per girare o presentare i loro film fecero tappa obbligata nel ristorante.

In un’epoca in cui il divismo cinematografico raggiunse il suo apice la pasta italiana divenne uno dei simboli del Belpaese per merito di quegli eccezionali testimonial ed al risalto che essi avevano sulla stampa internazionale grazie al fenomeno dei cosiddetti paparazzi che li inseguivano ovunque andassero.

Nel primo, ed in modo più consistente, nel secondo dopoguerra inoltre gli emigrati italiani nel continente americano ed i loro figli e nipoti, che avevano mantenuto un fitto scambio epistolare con i loro parenti italiani e avevano assicurato un consistente flusso di denaro tramite le cosiddette rimesse, innescarono un curioso fenomeno narrato da Generoso D’Agnese in «Purché sia pasta…».

Tornati in Italia, in visita ai loro parenti o per stabilirvisi dopo aver fatto fortuna oltreoceano, si aspettavano di trovare il «vero cibo italiano» che avevano iniziato ad apprezzare dalle loro madri e nonne in America e che per loro s’identificava in massima parte proprio con la pasta anche se nei paesi d’origine vi erano tradizioni diverse. La pasta, quindi, soprattutto nelle regioni meridionali d’origine degli emigrati, divenne un alimento identitario che le migrazioni interne dal Sud al Nord industrializzato non poterono che amplificare.

La cottura al dente della pasta

Uno degli elementi identitari della pasta all’italiana è sicuramente la cottura al dente.

La «cacio e pepe de rispetto» di Luca Barbarossa impone che lo spaghetto debba essere quasi crudo, pronto per la mantecatura, mentre Aldo Fabrizi, nel caso di una sua prematura dipartita, chiese di scrivere sulla lapide: «tolto da questo Mondo troppo al dente».

«La pasta, sia essa comperata o fatta in casa, si cuoce nell’ acqua bollente salata, in un recipiente largo, e durante la cottura (di mezz’ ora al massimo), che varia secondo la qualità e la sua grossezza, conviene sollevarla spesso con una forchetta di legno e assaggiarla per convincersi se si trova all’ ordine, cioè sensibile al dente senza essere cruda. Cotta che sia, la verserete in una scodella forata per farla scolare, e poi la condirete a norma delle ricette seguenti» («Il piccolo focolare», Trento, 1921).

Una tecnica, quella della cottura al dente introdotta dalla cucina napoletana, assai meno scontata di quanto si pensi e diventata prevalente solo in tempi relativamente recenti convivendo con cotture lunghe o lunghissime.

Scriveva a questo proposito Cavalcanti: «Li maccarune pure passano pe menesta, t’arraccomanno mperò de li cocere vierd, vierd, menannoli dint a la caudara quanno volle justo mmiezo ( e t’aggio da dicere no despietto che fece na’ vota no cuoco a lu Patrone, che faceva manciarli li maccarune levannole lu sapore, pecche li menava dinlo a la caudara primma che bolleva, e accossì ne levava tutto lu sapore pecchè chilli macccarune venevano tutte ncollusi, e io pe bedè si n’era lo vero chesto che m’ avevano dittò volette na matina farne la ‘sperienzia, e bedettela verità) quanno te pare ca se so cuotti leva subitola caldara da lo fuoco, e noe miette n’arciulillo d’acqua fresca, po le menieste facennoli scola buoni, mbrogliaunoli de caso viecchio, e provola e quant’aute sciorte de caso so, chiù benene buoni, Ili miette a filaro a filaro, o dint’ a na zoppiera , o a no vacile co lo brodo russo de lo stufato, e si po le miette ncoppa a la cenisa a stufà se faranno belli rus rus».

Ora sarebbe impensabile per un italiano far scuocere la pasta e la cottura al dente è un esame d’italianità per tutti coloro che pretendono di cucinare italiano.

Checco Zalone, in «Quo vado?» ha fatto urlare ad un se stesso infuriato: «Non si scrive l’Italia invano! Vichingo!» in faccia ad un ristoratore norvegese che aveva aperto un locale di cucina italiana, ma osava cuocere gli spaghetti per venti minuti partendo dall’acqua fredda.

Più che un alimento, uno stile di vita.

La pasta è ancora tra i primi cibi consumati dagli Italiani

Oltre che essere il Paese maggiormente produttore di pasta nel Mondo, l’Italia continua ad essere, con un consumo medio pro-capite di circa 28 kg annui che si traduce praticamente in una porzione di pasta al giorno, anche il maggior consumatore di pasta. Un consumo almeno doppio rispetto ai due Paesi, Tunisia e Venezuela, che si alternano al secondo posto.

Nelle preferenze degli Italiani la pasta si colloca al secondo posto dopo la pizza e, confrontando il dato con quello delle preferenze in materia di comfort food, in cui la pizza mantiene il primo posto, ma la pasta scende al nono, si comprende come tale preferenza sia eminentemente pratica.

Nonostante le ricorrenti demonizzazioni da parte dei media, la pasta, soprattutto quella secca, è considerata un alimento salutare, relativamente economico, facile e veloce da preparare a qualsiasi ora (i famosi «du spaghi» di Elio e le Storie Tese o, se preferite, i «Du’ avvorgibbili» di Aldo Fabrizi), che supporta ogni condimento (anche quello in scatola tipico dei fuorisede), che può scatenere l’estro improvvisato, come quello all’origine della pasta alla puttanesca, o che può porre rimedio ad una «distrazione» del momento: ma che non sia quella di scuocerla per carità divina!

Del resto quale altro Paese al Mondo può vantarsi di avere un piatto fatto apposta per i cornuti?

Foto di HANSUAN FABREGAS da Pixabay

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